Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 09 Giovedì calendario

Intervista a Silvio Orlando

La storia di Silvio Orlando è scritta nel suo volto, nei lineamenti irregolari dietro cui si annidano le ferite che l’hanno fatto crescere, così come le ferite dell’umanità che lui restituisce col suo mezzo sorriso. Con quel volto mite e inquieto sembrava destinato a un ruolo da caratterista e invece è un primattore, un ammiraglio sulla tolda. E la nave di Silvio va.
Quando ha capito che questo era il suo mestiere?
«Nella fase napoletana, che va dal 1975 all’85. Parlo di teatro. Il cinema era tabù, non avevamo una lira. Ognuno aveva il proprio gruppo. Ci mettevamo in qualche scantinato e facevamo testi nostri, anche cose di teatro popolare napoletano, per carità. Fino a quando, a 27 anni, in modo rocambolesco andai a Milano, al teatro dell’Elfo dove c’era una compagnia importante. Cercavano un napoletano per la trasposizione di Comedians, con la regia di Salvatores. Da lì è nato tutto».


Una volta ci disse che a 10 anni, dopo la morte di sua madre, cercava un risarcimento dalla vita.
«Era un pensiero a ritroso. Le maglie del controllo familiare si allargarono. Mio padre era commesso viaggiatore (vendeva macchinette fotografiche), in qualche modo ho continuato le sue gesta. Da lui ho preso la capacità di comunicare, l’empatia. Ripensando alla molla tecnica di esprimermi, sì, devo pescare nel lutto di mia madre, che è stato un tabù per tanto tempo. La commiserazione alla David Copperfield l’ho sempre rifiutata. Era severa, tosta. Si ammalò, ricordo la decadenza fisica, due anni a letto, era una presenza enorme che condizionò la vita della casa».
Come la cambiò il lutto?
«A scuola. Ero tra chi cercava di portare a casa la pelle da una maestra severa. Quella perdita accese un riflettore su di me, sentii un’onda di attenzione anche dai compagni. E mi sentii speciale, con quel desiderio di essere visto e ascoltato che poi avrei conquistato anni dopo come attore. Quando conosci il dolore nella sua forma più feroce ti abitui all’idea che si possa fare a meno quasi di tutto; da attore sono partito dal comico per esorcizzarlo e staccarmi da lì, mi sono rapportato all’idea di comunicare allegria e buonumore. Però, in modo sotterraneo, ha preso piede l’elemento melanconico. È difficile fare il comico per tutta la vita».
Quando è diventato protagonista?
«Il primo grande ruolo fu per Il portaborse di Luchetti».
Un critico di Napoli la stroncò.
«Sul giornale della mia città mi definì l’adenoideo napoletano sponsorizzato dalla critica micidialmente inespressivo. C’entrava il fatto che venivo percepito come attore di Nanni Moretti, che era nel film di Luchetti e quel critico non amava Nanni».
Lei è una presenza ricorrente per Nanni Moretti.
«Cinque film insieme. Un sodalizio che dura dagli Anni 80 a oggi, di sottofondo ci sono affetto e stima. Investì su di me quando non era scontato ed era un rischio grosso. Palombella rossa, il mio debutto con lui, fu la svolta. La lavorazione andò fuori controllo, Nanni aveva problemi di salute e i tempi si dilatarono. C’era qualcosa di metafisico. Pensai, allora il cinema si fa così. La ripetizione di ciak mi sembrava insensata... però l’importante è il risultato finale».

Ha conosciuto Paolo Sorrentino nel ’98, quando lui era solo sceneggiatore.
«Nel film Polvere di Napoli di Antonio Capuano, il suo mentore. Paolo era impermeabile, di una timidezza totale. Scrisse anche per un film che saltò, La voce dell’amore: io attore e Michele Placido regista, la storia di un cantante fallito e la figlia con una voce meravigliosa. Da quella costola nacque uno dei personaggi de L’uomo in più, l’esordio di Paolo. Per La grande bellezza lavorarono tutti tranne io, anche mia moglie Maria Laura ebbe una piccola parte. Pensai che mi vedesse come una faccia consumata».
Poi però le consegnò il cardinale Voiello.
«Per The Young Pope ricordo il provino con l’ostacolo dell’inglese, gli chiesi di cambiare posto col suo assistente, avevo bisogno di avere il suo sguardo davanti a me. Da quel momento tutto partì».
Come ricorda Jude Law, il Papa?
«Era un uomo caduto sulla Terra da qualche altro pianeta, ma sulla Terra si è trovato bene. Era distante, poi era sempre vestito da papa... Con lui ho capito la macchina hollywoodiana, la disciplina, il tipo di performance che devi dare. John Malkovich invece era più accogliente».
E poi c’era Diane Keaton.
«Lei non aveva capito niente di dove era stata paracadutata. Sembrava rapita con una botta in testa e portata sul set.
Aveva una scena lunga. Disse, ma come si fa a recitare una cosa del genere? Imprecava, perché faccio questo lavoro? Tra noi due in scrittura c’era un amore tra le righe. Non fu facilissimo. Lei evaporava e intanto io pensavo che era stata il mio mito giovanile».
Ha detto: sul set Nanni esplode, mentre Paolo sta per esplodere.
«Oggi rivedrei il mio giudizio. Sono affascinato dal rigore di Nanni. Sorrentino ti fa sentire come una top model, con abiti fatti di parole, vuoti, silenzi, sguardi. Con lui mi sento come Naomi Campbell. Mi ha regalato due abiti meravigliosi da indossare, Voiello e il professore di Parthenope, uno dei pochi elementi narrativi del film, con un’umanità profonda che interrompe quel flusso di stupefacenti immagini sovrapposte. Io sono un’eresia all’interno del percorso di Paolo».
Restando su Voiello, cosa pensa del Giubileo?
«Sono tornato a Roma dopo tre mesi di tournée, ho visto il marmo bianco delle fontane tirate a lucido. È il miracolo di questa città che sembra collassare: la mattina dopo invece è ancora Roma. Ho un rapporto particolare con la religione: in Chiesa ci sono elementi pensanti come non trovi altrove, forse non hanno famiglia, hanno tanto tempo a disposizione e sviluppano un pensiero. Sono stato dal Papa in un’udienza con cento artisti celebri da tutto il mondo: ci ha detto che l’artista non deve cercare l’equilibrio ma l’armonia, che lo sguardo deve essere quello di un bambino, e come un bambino dobbiamo fare domande assurde o dare fastidio. Ma alla fine l’artista ha sempre ragione. Parole straordinarie».

Lei si è definito «il monumento della insicurezza». Mai avuto l’incubo di sentirsi fuori posto?
«Vivo la sensazione che si svolge una festa e non mi fanno entrare. Anche se lavoro con registi importanti penso di essere unico, insostituibile. Poi mi risveglio, suono al loro citofono e non mi rispondono. Entro ed esco da luoghi dove dovrebbe avvenire la mia consacrazione definitiva. Più che la sindrome dell’impostore, un clandestino».
A teatro, di recente, ha reagito contro un cellulare.
«Ho reagito mio malgrado. A teatro si ha diritto di essere ascoltati, fai un patto con delle persone... Il discorso è tra la qualità di un attore da una parte, e dall’altra la maleducazione e la superficialità. Il vero miracolo oggi è che 600 persone riescano a stare per due ore senza cellulare. Mi meraviglio di come riescano a rinunciarvi. Cerco di far rientrare gli incidenti in momenti di spettacolo. Di solito faccio un annuncio prima. Quando succede l’intoppo ricomincio da capo, dal punto in cui il cellulare squilla o si imbianca per un messaggio. Io detesto l’idea del teatro come rito sacro del sacerdote che officia».
Chiudiamo con Napoli, la città indecifrabile vittima dei luoghi comuni.
«Penso alla diaspora. Chi è rimasto e chi è andato via. Come se non fossimo legittimati a parlarne. Io sono cresciuto con la Napoli degli Anni 60, ricostruita nei quartieri nuovi. Il Vomero era il sogno di modernizzazione, miseramente fallito. Noi abbiamo cercato di liberarci del carico dei cliché. Ho letto una classifica, che non so come si compila, dove Napoli risulta la città meno felice. Si scambia l’allegria per felicità, che sono cose diverse; l’allegria è una maschera che si mette per non impazzire. La natura lì è più forte, non solo per il mare ma per quello che scorre sotto la città, il vulcano, il fuoco. Per questo i napoletani sono imprevedibili, non puoi metterli in qualcosa di predefinito. Negli ultimi anni un movimento culturale o di costume c’è stato. I treni veloci che portano tanta gente hanno mostrato una Napoli meno sgomenta di tante fiction. È una trappola in cui è difficile che vi ricada chi ci ha vissuto. Forse sono un guastafeste di natura. Napoli mi sembra una festa forzata, obbligata, però resta un magnete anche per noi che ci siamo nati».