Corriere della Sera, 9 gennaio 2025
Intervista a Piero Cipollone, l’italiano nel board Bce
I grandi Paesi europei sembrano in crisi industriale e perdono terreno sugli Stati Uniti. Che succede?
«Non vorrei che stessimo abbaiando all’albero sbagliato – risponde Piero Cipollone, del comitato esecutivo della Bce –. Davvero vogliamo competere con la Cina sul prezzo del manifatturiero? Secondo alcuni studi, anche se mettessimo dazi al 100 per cento sulle auto cinesi, non riusciremmo lo stesso a vincere sul prezzo. Del resto, anche gli Stati Uniti oggi producono meno auto rispetto all’Europa».
Allora qual è il punto?
«Guardiamo ai settori che spiegano il divario di produttività tra l’Europa e gli Stati Uniti e che ci indeboliscono nella concorrenza con la Cina: tecnologia e finanza. E non è sufficiente adottare le soluzioni sviluppate da altri, è importante essere anche in grado di competere in questi settori. Se un’impresa europea adotta alte tecnologie come l’intelligenza artificiale, produrrà di più a parità di input di lavoro. Ma probabilmente questo incremento non si trasformerà in maggiore valore aggiunto. Infatti, a fornire quelle soluzioni alle imprese europee spesso è un monopolista delle Big Tech americane e probabilmente sarà lui ad appropriarsi di quell’aumento di produttività fisica aumentando il prezzo dei servizi. Il che alza i costi di produzione e riduce il valore aggiunto delle imprese europee».
Vuole dire che in Europa dobbiamo innovare di più?
«Per numero di brevetti gli europei e le università europee non sono dietro agli Stati Uniti. Poi però i nostri inventori o realizzatori vanno lì. Vediamo in questi mesi alcune delle nostre principali imprese innovative trasferirsi negli Stati Uniti e beneficiare della dimensione del mercato del prodotto, della scala dei mercati finanziari e del capitale di rischio americani. In Europa stiamo perdendo la corsa alla frontiera e alla scalabilità, ragioniamo troppo in ottica difensiva e nazionale. Perciò abbiamo iniziato a perdere terreno con la svolta di Internet a fine ’900 e il prossimo scalino rischia di essere l’intelligenza artificiale».
Come se ne esce?
«Gli europei non sono meno capaci. Ma bisogna pensare che nell’attuale ondata di innovazione il costo marginale del prodotto è zero. Per chi detiene una scoperta di software, per esempio, aumentare l’offerta da uno a un miliardo di clienti è per molti aspetti gratis. Quindi se ha un mercato di riferimento molto ampio – come, per esempio, gli Stati Uniti o la Cina – quell’operatore cresce molto e molto in fretta. Il problema dell’Europa è qui: non abbiamo un mercato unico compiuto, sia per i beni e i servizi che per il mercato dei capitali. Una stima del Fondo monetario internazionale dice che la frammentazione interna all’Ue equivale a subire dazi del 44 per cento sui beni e del 110 per cento sui servizi».
Difendere le vecchie eccellenze industriali è una battaglia di retroguardia?
«Per farlo dobbiamo innovare e coniugare la tradizione con l’innovazione, investendo e uscendo da una visione mercantilistica. Mentre lamentiamo perdite di competitività dell’area dell’euro abbiamo un surplus di bilancia delle partite correnti vicino al 3 per cento del Pil. Questo significa che, al netto, investiamo 435 miliardi di euro meno di quanto risparmiamo nell’area dell’euro. Se investissimo quel 3 per cento, avremmo metà dei fondi stimati da Mario Draghi per l’attuazione del suo piano e potremmo salvaguardare il futuro dell’Europa come base produttiva».
Parla degli investimenti da 800-900 miliardi l’anno?
«I soldi ci sono, le università che producono cervelli e idee anche. Si tratta di saper usare la profondità del nostro mercato interno per fare quel che fanno gli Stati Uniti. Non abbiamo ancora accettato che i singoli Paesi europei non hanno più la scala adatta per confrontarsi con i leader mondiali. Viene da pensare alla situazione politica dell’Italia del ’400; mentre i francesi, gli spagnoli e gli inglesi formavano grandi Stati unitari, l’Italia restava divisa in tante piccole unità territoriali e nonostante le competenze, la ricchezza e la cultura è rimasta indietro. Oggi dipende solo da noi, noi europei».
Alla Bce siete rimasti sorpresi dalla debolezza dell’economia dell’area euro?
«Da giugno lo staff ha rivisto al ribasso le stime del Pil tre volte. Fra il 2024 e il 2026 la revisione cumulata dà quasi un punto percentuale di prodotto interno lordo in meno. E le stime attuali considerano solo parzialmente l’incertezza legata alla futura politica commerciale americana. Questo porta molti operatori a restare alla finestra».
Avete delle previsioni su cosa farà Donald Trump?
«È difficile quantificare l’impatto preciso, perché non sappiamo nel dettaglio come metterà in atto il suo programma. Certo, come dicevo, proprio questa incertezza può frenare gli operatori e non fa bene alla dinamica degli investimenti e dei consumi».
Spiega così la debolezza economica in area euro?
«In effetti ci ha sorpreso soprattutto la lenta ripresa dei consumi. Ce l’aspettavamo più veloce, invece le famiglie risparmiano».
Perché?
«Il loro reddito disponibile in media è cresciuto, ma il contributo dei redditi da lavoro è stato relativamente limitato. Sono cresciuti gli interessi, i profitti, le rendite, i rendimenti di borsa, le attività reali: fonti di reddito meno liquide, che non arrivano direttamente nelle tasche. E sono concentrate presso i ceti più abbienti, mentre nei redditi più bassi alcune categorie, che avevano visto una riduzione della loro ricchezza e avevano dovuto attingere alle riserve per mantenere il tenore di vita durante la pandemia e lo choc energetico, provano adesso a ridurre il loro indebitamento e a ricostituire i loro risparmi».
E gli investimenti?
«Sono calati nel 2024 e cresceranno poco nel prossimo triennio. A fronte della debole domanda e dell’elevata incertezza, le imprese esitano a investire. Alla fine del nostro periodo di previsione, nel 2026, risultano sotto ai livelli del 2023 in proporzione al Pil. Malgrado i grandi investimenti pubblici, legati per esempio ai Piani nazionali di ripresa. Ma come portiamo l’intelligenza artificiale nelle fabbriche o negli uffici se non investiamo? Perciò dico che tenere la domanda bassa nel tentativo di garantirci contro futuri choc di inflazione secondo me, oggi, è controproducente. Un’ulteriore erosione del nostro potenziale economico aumenterebbe la pressione inflazionistica, invece di ridurla».
Cosa deve fare la politica monetaria della Bce?
«Secondo me non deve cercare di assicurarsi all’eccesso contro eventuali choc futuri d’inflazione. Deve cercare di far camminare l’economia al suo potenziale, senza forzarlo perché ciò potrebbe far salire le aspettative di inflazione. Ma tenere l’economia sotto al potenziale la indebolisce e toglie spazio proprio per reagire agli choc quando si verificano. Avere un limite di velocità più alto, con una crescita reale del Pil coerente col suo potenziale e una crescita dei salari coerente coi guadagni di produttività, aiuta ad assorbire i problemi futuri sulla dinamica dei prezzi con meno stress».