13 dicembre 2024
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Biografia di Vinicio Capossela
Vinicio Capossela, nato a Hannover (Germania) il 14 dicembre 1965 (59 anni). Cantautore. Scrittore. Tra i riconoscimenti ricevuti, sei Targhe Tenco e il Premio Tenco alla carriera. «A volte ho bevuto, a volte ho letto, a volte ho scritto e composto. Non c’è mai stato un ordine o una priorità definitiva. L’importante è non ripetersi e non dipendere troppo dalle proprie scelte» • Famiglia di emigranti irpini. «Calitri è sempre stato un paese di contadini. […] È una terra che non ti trattiene ma non ti lascia: mio padre è partito a 18 anni e non s’è mai sentito a casa come qui. […] Pare che i Capossela, pastai di professione, siano arrivati a Calitri da Caposele, dove nasce il Sele, che toglie la sete alla Puglia. Mia madre è di Andretta, un paese più piccolo e arroccato. Senza scomodare Omero e l’Odissea, sono cresciuto tra Hannover e Scandiano ascoltando madri, zie, nonne evocare l’Alta Irpinia, i rituali della civiltà contadina, le canzoni e i soprannomi, le masciare e i briganti» (a Gianni Mura) • «A volerla chiamare Vinicio fu […] suo padre. “Essendo il primogenito maschio, per una tradizione immutabile, mi sarei dovuto chiamare Vincenzo come mio nonno. Per mio padre Vito alterare il corso delle cose rappresentò un coraggioso atto di insubordinazione. Mio nonno non la prese bene: ‘Che cazzo di nome gli hai dato, non lo trovi neanche nel calendario di Cristo’”. E Vinicio fu. “Come il console Marco Vinicio, il personaggio interpretato da Robert Taylor in Quo vadis, e come il fisarmonicista dei coloratissimi dischi della Durium che mio padre, operaio, comprava come unica evasione dalle strettissime economie familiari e come sola concessione – insieme alle Nazionali Esportazione – al fatuo, all’inutile e all’inessenziale”» (Malcom Pagani). «“I miei […] emigrarono in Germania. Sono nato casualmente a Hannover. Ma ho passato l’infanzia e la giovinezza in Emilia. Terra unica: di canzoni, balli e motociclette. […] Vivevamo in una contrada di campagna. Dove ancora era presente il ricordo dei tedeschi invasori. C’era la casa del popolo. La balera, le feste comandate. C’erano ancora le piccole e autentiche comunità, con un senso di profonda appartenenza. Il sacro e il profano convivevano e la musica faceva da collante”. Quando hai iniziato a interessartene? “Mi ha sempre attratto, fin da bambino. Ricordo la prima volta che assistetti alla festa per uno sposalizio. Ero sedotto dalla gioia della gente che ballava; dal canto di alcuni e da un suonatore di fisarmonica, particolarmente bravo. Avevo otto anni. La nipote del prete mi fornì i primi rudimenti musicali. Poi andai a lezione da un maestro di musica da ballo e imparai solfeggio”» (Antonio Gnoli). «Ho scelto chimica alle superiori e poi ho fatto un po’ Economia all’Università di Parma. Tutte materie che ancora non so perché ho studiato. La mia intera esperienza scolastica è un’esperienza da sonnambulo. Non ero totalmente consapevole di quel che accadeva quando ero in aula, e ancora non so come ho fatto a superare certi esami. Ho sempre pensato a qualcos’altro. L’insegnamento principale della scuola è stato questo: pensare a qualcos’altro». Nel frattempo aveva continuato a coltivare la passione per la musica. «A 11 anni impara a suonare l’organo, quindi frequenta per breve tempo il conservatorio ed entra in un gruppo hard rock locale (gli Hurricane) come tastierista e armonicista. […] Terminate le superiori (è perito chimico), si iscrive all’università e forma, con la sua ragazza dell’epoca come cantante e lui al piano, i Blue Valentine, duo che si esibisce dal 1986 al 1988 con un repertorio di standard internazionali» (Alessia Pistolini). «A me piacevano Neil Young e Bruce Springsteen, ma soprattutto Tom Waits. Avevo tredici anni quando ascoltai per la prima volta l’album Foreign Affairs e capii l’importanza del solista che sostituisce la chitarra con il pianoforte. Se si guarda al lavoro di Waits, si vede che non costruisce archetipi – come fa per esempio Dylan –, non esprime una vera originalità; ma ha la forza di rielaborare tutta la musica popolare americana, marcandola con dei forti echi letterari. Ci ritrovavo Kerouac e Bukowski, che proprio alla fine degli anni Settanta avevo cominciato a leggere. Capivo la loro paura di vivere, mascherata di gioia lungo strade che non portavano più a niente». A Tom Waits è legato anche un altro avvenimento importante per Capossela, datato 1986: «Quell’anno a Sanremo fu la prima volta che Waits cantò in Italia. Fu un evento che cambiò la mia vita. Avevo sentito la notizia alla radio. Con la mia ragazza dell’epoca avevamo formato un duo, i Blue Valentine. […] Ricordo che il giorno del concerto di Tom Waits a Sanremo io avrei dovuto fare un esame importante dal quale dipendeva il mio futuro universitario. Non ebbi dubbi. E la mia vita cambiò. Dopo il concerto ci avvicinammo a Roberto Benigni. Fu intenerito dalla nostra passione, dal nostro affanno, e ci portò da Waits. Ricordo che mi salutò come un fratello maggiore» (a Laura Putti). «Prosegue poi da solo, suonando sulla riviera romagnola (con una parentesi newyorkese) e iniziando anche a cantare sue canzoni. Intanto frequenta il Club Tenco, dove conosce Francesco Guccini, il quale consegna un suo demo al proprio produttore, Renzo Fantini (lo stesso anche di Conte)» (Pistolini). Era «“una musicassetta incisa al Pjazza di Bellaria. Mi registrai da solo, con il rumore di fondo dell’aspirapolvere, all’una di notte o giù di lì, mentre i clienti aspettavano che le cameriere, le bellissime cameriere, finissero il turno per chiedere un numero di telefono, un appuntamento o solo la scusa per tornare il giorno dopo. ‘Che strana razza è poi il cliente:/ c’è quello bello e intelligente,/ c’è il casinaro e l’invadente…’”. Il suo primo album […] si intitolava All’una e trentacinque circa. “Non a caso. Nel primo disco c’erano – romanzati – i personaggi che avevo visto con i miei occhi”» (Pagani). «Ed è così che nel 1990 Capossela incide All’una e trentacinque circa, Targa Tenco come miglior opera prima dell’anno. Il disco offre facili accostamenti ad altri musicisti, in particolare Waits e Conte, ma contiene già molti ingredienti delle opere successive: la dimensione notturna, l’autobiografismo, la strada, i bar, gli amori di passaggio o perduti e, sotto il profilo musicale, la predilezione per i lenti con pianoforte e i ritmi ballabili quali il tango, il blues, lo swing. L’anno successivo esce Modì, in cui le derivazioni sono ancora ben identificabili. L’impronta personale, però, comincia a farsi decisa. […] È il disco di brani splendidi come Ultimo amore, Modì, Pasionaria, Solo per me. […] Camera a sud del 1994 (primo lavoro pubblicato anche all’estero, in Francia) segna un passaggio stilistico. Ai ritmi segnatamente sudamericani (Guiro, Camera a sud, Che coss’è l’amor) si affiancano ora cenni balcanici (Zampanò). […] Che coss’è l’amor viene inserita nel film Tre uomini e una gamba con Aldo, Giovanni e Giacomo e contribuisce sensibilmente ad aumentare la notorietà di Capossela, insieme a una sorta di passaparola tra gli ascoltatori più attenti e alla nomea di artista sregolato. […] Nel 1997 esce un disco dalla notevole levatura: Il ballo di S. Vito. […] Nel 2000 […] esce Canzoni a manovella. È il momento del superamento di sé, nel significato più vasto dell’espressione: il disco abbandona quasi del tutto l’autobiografismo. […] Lo spostamento delle sonorità verso l’area balcanica […] permea l’intero album. Sarà un buon successo di vendite, con un bel video d’autore (Ago Panini) del brano Marajà e la Targa Tenco 2001 per il miglior disco a pari merito con Francesco De Gregori. […] Ovunque proteggi […] (2006), frutto di una ricerca di sonorità e atmosfere proprie per ciascun brano, […] è ispirato da un nuovo sapore, quello per il mondo archetipico della religione, della storia e della mitologia. Capossela sembra portare qui a compimento un percorso poetico che dal marcato autobiografismo iniziale allarga sempre più lo sguardo fino a occuparsi dei misteri profondi che accomunano l’umanità intera» (Pistolini). Premiato con la terza Targa Tenco, «Ovunque proteggi è un disco “magico” in tutti i sensi e il capolavoro assoluto di Capossela, che da lì ha intrapreso una strada di ricerca unica, tra Pasolini e La terra del rimorso di De Martino, tra Il ramo d’oro di Frazer e il Furore di Steinbeck, Strade blu di Least Heat-Moon e i Tarantolati di Tricarico. Western calitrano, appunto» (Luca Valtorta). «Capossela torna in America nel 2008 con l’album Da solo – forse e ingiustamente uno dei meno apprezzati –, che […] regala chicche come Il paradiso dei calzini, Il gigante e il mago e Sante Nicola. Nel 2011, […] con il doppio album Marinai, profeti e balene, […] musica episodi marinareschi di Melville e i più celebri capitoli dell’Odissea, dall’incontro con Polifemo alla prigionia di Ulisse sull’isola di Ogigia» (Daniele Sidonio). Acclamato da buona parte della critica, Marinai, profeti e balene guadagnò a Capossela la quarta Targa Tenco, seguita pochi giorni dopo dal Premio Fabrizio De André alla carriera. Il 2016 vide l’uscita di un doppio album lungamente meditato, Canzoni della Cupa, «un disco che nasce dall’incontro del musicista […] con “il grande patrimonio orale di storie, proverbi, sonetti, modi di dire del paese di Calitri e dintorni”. […] “La Cupa è un luogo oscuro. In altri miei dischi l’oscurità era più esistenziale. Qui c’è una mancanza di luce legata alla terra, alle sue creature, alle sue leggende”» (Raffaella Oliva). «Un disco, fatto più unico che raro, capace anche di travalicare i confini, prendendosi quattro stelle dalla bibbia inglese della musica, il mensile Mojo» (Valtorta). In seguito Capossela ha ottenuto la targa Tenco anche nel 2019, con Ballate per uomini e bestie – «Queste infatti sono le mie “cronache dal post-Medioevo”. Nella cultura medioevale la realtà non esisteva: esisteva la verità di Dio, la realtà era solo simbolo di qualcos’altro. Paradossalmente la nostra epoca ipertecnologica vive la stessa dicotomia: non a caso oggi si parla di realtà virtuale» –, e nel 2023, con Tredici canzoni urgenti, in cui «Capossela rivendica la sua diversità, tirando in ballo nelle canzoni addirittura Ariosto, Brecht e Goethe. […] “È musicalmente polimorfo: spazia dalla folìa cinquecentesca al reggae anni ’90. Ci sono ballate, jive e anche un cha cha cha. È un lavoro fuori dal mercato dei valori. Le canzoni sono nate tutte insieme, all’inizio del 2022, generate da un sentimento di urgenza”. Rispetto a cosa? “Al momento storico. Parlo di violenza di genere, di cultura usata come mezzo di separazione sociale e anche della guerra, ne La crociata dei bambini. Un campionario di mali che non riusciamo più a vedere e a capire, schiacciati dall’incessante berciare della società dello spettacolo, che è sempre più la società dell’algoritmo. […] Un disco che ha un forte sentire civile”» (Mattia Marzi). Tra i due album, nel 2020, ha pubblicato l’ep Bestiario d’amore. «Non si è mai così soli come da innamorati. E così pieni di mostri. E così pieni di bestie. L’amore è proprio come uno zoo interiore. Quello a cui mi sono ispirato è il primo e forse l’unico Bestiario d’amore, creato da Richard de Fournival nel 1252. Nell’originale gli animali citati sono ben 57 e mi è venuta voglia di farne una riduzione in forma di poema musicale, una specie di piccola operina in cui gli stati d’animo delle creature citate vengono evocati in musica». Nel 2022 è apparso sul palco di Sanremo per accompagnare insieme a Mauro Pagano il cantautore Giovanni Truppi nella sua versione di Nella mia ora di libertà di Fabrizio De André. «De André è come la Bibbia: la puoi leggere in chiesa come in carcere, sempre parlerà dell’umano. […] Andrebbe sempre cantato, su ogni palco» (a Ernesto Assante). Da ultimo, il 25 ottobre 2024, ha pubblicato Sciusten feste n. 1965, che «contiene quindici canzoni tra inediti, riscritture, rivisitazioni e reinterpretazioni di standard per le feste, con la partecipazione di alcuni ospiti speciali come Marc Ribot, Greg Cohen, Mikey Kenney e Vincenzo Vasi. “Sono canzoni che danno spazio all’anima della festa”, racconta il musicista, “quindi ai trambusti, agli abbracci, alle lacrime, alle redenzioni, alle rivoluzioni, alle ribellioni, ai trabocchi e agli sgambetti della stagione in cui si sospende il tempo dell’utile, il tempo del lutto, il tempo della morte e della rabbia, per recuperare sotto la tenda di Achille, mentre fuori infuria la battaglia, quel senso di comunità, di gioco e di festa, che è una delle più feconde espressioni dell’umano”. […] Sciusten Feste n. 1965 nasce […] da una lunga storia che risale al 1999, anno in cui Capossela si esibì nel suo primo “concerto per le feste” al Fuori Orario, storico locale affacciato ai binari della ferrovia a Taneto di Gattatico (Reggio Emilia). Da allora, Capossela ha continuato ogni dicembre a dare vita a concerti vivaci, omaggianti le tradizioni folcloristiche del passato più disparate, con il solo scopo di glorificare la festa nella sua accezione più ampia» (Giuliano Delli Paoli). «Siamo diventati dei reazionari, ci siamo affezionati a una tradizione e la ripetiamo. Mi piace la ritualizzazione, vivere le date come finestre di accesso al mondo ciclico della natura, punti di regolazione del tempo e del calendario, che altrimenti ci sfugge, come la vita» (a Carlo Moretti) • Personaggio poliedrico, si è cimentato anche nella scrittura, iniziando nel 2004 con Non si muore tutte le mattine (Feltrinelli). Nel 2015 con Il paese dei coppoloni (Feltrinelli) fu candidato al Premio Strega (presentato da Eva Cantarella e Gad Lerner), senza tuttavia essere incluso nella cinquina dei finalisti. «Sono storie raccontate dal mio punto di vista, quello dei coppoloni, la gente che si doveva togliere il cappello di fronte ai signori. La carne da macello pronta a emigrare per sopravvivere» • Dal 2013 al 2023, ogni anno a fine agosto, ha organizzato a Calitri lo Sponz Fest, da lui stesso ideato ispirandosi agli «sponsali» contadini (da cui il nome). «Gli sposalizi nella cultura contadina sono fondamentali, e un tempo avvenivano d’inverno, in gennaio, febbraio, perché c’erano pochi lavori da fare. Poi invece, con l’emigrazione, i matrimoni si sono cominciati a fare ad agosto, perché era il periodo in cui chi era fuori tornava al paese. La mia prima esperienza della musica, del ballo, è stata quella». Annullata l’edizione del 2024, il prossimo appuntamento è stato annunciato per il gennaio 2025, «nella dodicesima notte, alla vigilia dell’Epifania» • «Vive, quando non è in tour, […] non distante dalla stazione Centrale di Milano: uno studio di registrazione con annessa cucina e, poco distante, la casa» (Gnoli) • Breve esperienza matrimoniale in gioventù con la modella statunitense Jill Haley. «Il matrimonio è quello che inizia dopo, quando si chiudono i battenti e si rimane soli nella carne, diceva Bergman: una questione impegnativa tra due persone. Che può andare male». «Finora ho sempre preferito essere figlio piuttosto che padre. E forse è così che funziona: c’è chi nasce per essere padre e chi per essere figlio» • «Non sono credente, non sono sorretto dalla fede, ma sono sensibile al sacro, alla ritualità e leggo con attenzione le Scritture. La religione ci offre delle chiavi di comprensione più dell’uomo che di Dio. D’altronde, Dio stesso si è fatto uomo» • «A lei hanno mai proposto di candidarsi? “No, per fortuna. Credo non ci sia una sciagura maggiore che ricoprire ruoli di potere. Ci sono molti modi di essere politici: io lo sono scrivendo e cantando”» (Marzi) • «Beve molto? “Il mio stesso nome, Vinicio, mi fa amico del vino. Mio nonno portava quello della sua vigna ai ritrovi come fosse latte. È un accesso a noi stessi e, come il sesso, ai lati più profondi della nostra natura. Conta saperlo dominare. […] Certo, quando si prende il mare, bisogna avere un’imbarcazione che sappia reggere”. Lei ce l’ha? “Ho rischiato la zattera malconcia, ma oggi sì”» (Lavinia Farnese) • Grande passione per la letteratura. «Ho provato a ricavare canzoni da diversi libri. Per esempio Lord Jim di Conrad, o La ballata del vecchio marinaio di Coleridge, o Moby Dick di Melville, una specie di grande musical pieno di inni e di canzoni marinaresche. Anche dall’Odissea, che è anche una testimonianza della potenza del canto: Ulisse ottiene il ritorno perché sa raccontare la sua storia con l’abilità di un aedo» (a Stefano Brusadelli) • Indossa sempre un cappello («Lo tolgo solo per dormire»), generalmente di foggia bizzarra. «I cappelli sono come i cani: ci si passa del tempo insieme. A volte spariscono, e capisci che la tua stagione con quel cappello è finita» • «Barba lunga da viandante e occhi bizantini» (Gnoli). «È un cantastorie di razza, un po’ come quelli che un tempo giravano a bordo di un carrozzone colorato, fermandosi nelle piazze a incantare il pubblico» (Vincenzo Petraglia). «Cantore, poeta, sciamano» (Goffredo Fofi). «Canta come Tom Waits, scrive come Ovidio» (The Sunday Times) • «Ho imparato a comprendere l’armonia delle mie contraddizioni. Io l’ho battezzato, il demone che ho dentro» • «Ripensa mai agli esordi difficili? “Al Vienna di Modena un punk uscì dalla sala sputando per terra e gridandoci ‘Voi siete la morte’, ma, come diceva quel saggio, le début c’est le début. All’inizio vale tutto, ma proprio tutto. E non te la puoi prendere, né offenderti”» (Pagani). «Quando voglio scrivere qualcosa di nuovo mi metto in viaggio, proprio come facevano una volta i pellegrini. Partire è il primo passo per imbattersi in un’occasione e in un incontro che possono far nascere un testo o una sonorità speciali. Sono le persone e i luoghi inaspettati che mi aiutano a crescere e creare. La definirei una specie di reazione a catena». «Le canzoni si completano in due. Uno canta, l’altro ascolta. Lo spettacolo è un momento di completamento» • «Come vorrebbe fosse il suo epitaffio? “Sono morto tante volte, ma mai così”» (Farnese).