La Stampa, 8 gennaio 2025
Intervista a Maurizio Gasparri
«Il segreto della durata? Beh, servirebbe un libro, non un’intervista», ci dice Maurizio Gasparri, che in Parlamento è entrato con il Msi nel ’92, in piena Tangentopoli. Il primo atto di furbizia politica fu proprio su Bettino Craxi: «In quella drammatica seduta sull’autorizzazione a procedere, nello scrutinio segreto votammo per salvarlo, così come fece la Lega, per poi meglio cavalcare l’indignazione collettiva contro il Palazzo». Da allora: nove legislature, sottosegretario all’Interno nel primo governo Berlusconi, ministro alle Comunicazioni nel secondo, capogruppo del Pdl, vicepresidente del Senato, di nuovo capogruppo di Forza Italia.
C’è una poltrona che avrebbe voluto?
«Nel 2001 chiesi di fare il viceministro dell’Interno. L’ipotesi era Franco Frattini al Viminale. Poi ci andò Claudio Scajola e mi diedero le Comunicazioni. Questa è una delle tante lezioni imparate: chiedi di meno, otterrai di più».
La famosa legge Gasparri: duopolio immodificabile e la tv sotto il giogo della politica.
«Eh no, con me l’editore era il Parlamento, e non ci vedo lo scandalo. Renzi invece ha messo la Rai sotto il governo. Una bella differenza. Chi criticava la mia legge l’ha portata alle estreme conseguenze».
Ma si vincono le elezioni con le tv?
«No. Tutti hanno l’ossessione del controllo ma le elezioni si vincono quando si vincono e si perdono quando si perdono. Spesso le perdono gli altri».
Se uno oggi tocca il canone, cade il governo?
«Ma nessuno lo tocca… Fanno finta di abbassarlo però prevedono un assegno compensativo alla Rai. È solo scena».
Metterebbe una mano sul fuoco sul fatto che Marina o Pier Silvio non scenderanno in campo?
«Sì, perché non ne hanno interesse. Hanno grandi responsabilità e sanno, per l’esperienza del padre, che la politica espone ad attacchi pretestuosi».
Giorgia Meloni le deve essere riconoscente? Iniziò nella corrente sua e di La Russa, Destra Protagonista.
«L’appoggiammo al Congresso per diventare capo dei giovani. L’altro candidato era Carlo Fidanza, sostenuto da Alemanno. Su di lui aveva scommesso anche Fini per ridimensionare la nostra componente. Qualche consiglio sul Parlamento glielo ho dato quando è diventata vicepresidente della Camera nel 2006… Poi è andata avanti per meriti suoi. C’ha stoffa».
Le piace proprio il Parlamento. Cosa insegna ai giovani deputati?
«La prima cosa che ho imparato io: la disciplina. Ricordo, ai tempi in cui si discuteva il Mattarellum, che Pinuccio Tatarella faceva fare a me e La Russa le sedute notturne nella sala della Lupa. Facevamo passare gli emendamenti concordati con Sergio Mattarella quando tutti erano stanchi. Non chiedevamo mica “perché”. Obbedivamo. E siamo ancora qui: gli obbedienti durano, i renitenti spariscono».
Lei è un estimatore di Sergio Mattarella.
«Decisamente, lavorai anche per farlo eleggere alla Corte costituzionale. Il posto spettava al Pd, e a noi andava bene. Ma c’era un po’ di fronda trasversale su Violante. Mi chiamò Giorgio Napolitano. Gli ho fatto l’elenco dei frondisti del Pd in modo che potesse intervenire. Ebbene sì: ho fatto il delatore istituzionale, ma le maggioranze qualificate si fanno anche così».
Sull’interventismo di Napolitano c’è un’ampia letteratura.
«Napolitano incarna un’altra lezione. Quella secondo cui i numeri contano ma fino a un certo punto. Conta anche l’influenza».
Faccia un esempio tra i tanti.
«Dovevamo eleggere il vicepresidente del Csm. Gli facemmo il nome di Annibale Marini, ex presidente della Corte costituzionale. Era disponibile. Napolitano ci disse: “Ma siete sicuri? “. Finì lì. Dopo qualche ora ricevo la telefonata di Michele Vietti, profilo centrista: “Sai Maurizio, io sarei interessato”. Alla fine, fu Vietti».
Dia un consiglio per sbloccare la vicenda della Corte oggi.
«C’è poco da fare, occorre un pacchetto di quattro nomi: due al centrodestra, uno a sinistra e uno condiviso da tutti. È saggio, sennò non se ne esce».
In trent’anni di Parlamento ha visto franare la Bicamerale, la riforma Calderoli e quella di Renzi. Stavolta?
«Sono prudente su due temi: la Grande riforma e il Ponte sullo stretto. Pur essendo favorevole a entrambi, ho la prudenza dell’esperto».
Chi comanda oggi in Italia?
«Tatarella fece una nota intervista, denunciando i poteri forti. Io ho imparato che sono indeboliti, ahimè, perché a volte farebbe comodo avere interlocutori forti. È chiaro che l’ad di una grande banca conta più di me, ma non vedo in giro burattinai. Sono più evocati che operativi».
Quindi non vede neanche complotti?
«Pressioni, ma non trame. Anche su Berlusconi. Nel 2022 stava ancora in Senato. Con poteri davvero forti, non sarebbe durato trent’anni».
Quando è entrato nella stanza dei bottoni, li ha trovati?
(Ride, ndr) «In verità non volevano farmi entrare. Nel ’94 arrivai al Viminale come sottosegretario sulla Panda rossa tutta graffiata di Vittorio Martinelli (storico dirigente della destra). I poliziotti ci chiesero: “Voi chi siete?”. Sembrava la scena di Non ci resta che piangere».
E una volta entrato?
«Nell’armadio trovai una bottiglia di centerbe smezzata, lasciata dal predecessore. Poi arrivò il prefetto Vincenzo Parisi, mitico capo della Polizia, che ci spiegò chi comandava. Anche per un computer dovevi chiedere a lui. Sapeva che avrebbe fatto il ministro dell’Interno dopo il ribaltone. Poi morì a dicembre del ’94. Riuscimmo però a fare nomine importanti come Achille Serra e Gianni de Gennaro».
Chi sono gli avversari di Giorgia Meloni?
«Allo stato non ne ha, ma non va sottovaluto l’avversario. L’ammucchiata la faranno».
Le piace Elon Musk?
«Ammiro la sua capacità di fare soldi. Non condivido droghe e utero in affitto. E i progressi tecnologici vanno affrontati con gradualismo».
Perché non ha sentito il richiamo della foresta di FdI?
«Perché, sin dai tempi di Tatarella, sono stato un sostenitore del partito all’americana, dove dentro ci sono dai liberal agli anti-abortisti».
Giorgia Meloni dovrebbe rifare il Pdl?
«Dovrebbe guardare al Ppe, come elemento di stabilizzazione. Il dibattito ci fu anche in An. Si è visto su Fitto. Se non fosse stato un moderato e senza l’appoggio di Tajani e Weber le deleghe non sarebbero state tali».
Quando ha capito che era finita con Fini?
«Fini non voleva fare il Pdl. Pensava che il governo Prodi durasse e si aprisse il dopo-Berlusconi. Subì il Predellino. Poi, fatto il governo, ci incontrammo nel suo appartamento alla Camera. Oggetto: come stare nel Pdl. La Russa disse una cosa logica: stiamo in contatto, facciamo rete. Lui ripose: ognuno farà quello che vuole. Lì ho capito».
Mi dica l’ultimo segreto per rimanere a galla.
«Esserci. In politica devi esserci. Ed essere consapevole che non si sa mai come va a finire. Nella primavera del 2006 incontrai Sergio Mattarella in aereo. Lo avevano candidato a Trento perché in Sicilia comandavano altre componenti del suo partito. Nove anni dopo era al Colle».