la Repubblica, 8 gennaio 2025
Intervista a Simona Molinari
ROMA – «Sarebbe difficile restare creativi pensando alle logiche del mercato». Simona Molinari è un esempio raro nel panorama musicale italiano: canta jazz (e non solo), va in tv e in teatro e riempie sale, resta credibile senza compromettere la sua integrità. Sette album alle spalle, collaborazioni prestigiose (Peter Cincotti, Al Jarreau, Gilberto Gil e tanti altri artisti italiani), ha vinto la Targa Tenco nel 2024 per Hasta siempre Mercedes,un omaggio a Mercedes Sosa – leggendaria cantante argentina simbolo di libertà – che è diventato anche uno spettacolo teatrale che riporta in scena sporadicamente. Mentre prosegue il suo tour (prossima tappa il 22 gennaio a Roma), la cantante pubblica il 17 gennaio il singolo Believer, una cover del brano degli Imagine Dragons prodotto da PiSk e realizzato in stile manouche insieme ai Four On Six, con un video girato come fossimo negli anni Trenta.
Lei ci costringe sempre a dei grandi ripassi: oltre al jazz, adesso dobbiamo ristudiare Django Reinhardt e il manouche.
«Quella canzone è supermoderna.
Adoro gli Imagine Dragons e ho pensato a come l’avrebbe fatta Django. È un’operazione nata per gioco, il nuovo video che accompagnerà il brano unisce gli opposti musicali ma anche umani, a cavallo tra memoria e tecnologia.
La musica ha questo potere pacificatorio».
Pochi mesi fa ha messo in piedi un progetto dedicato a Mercedes Sosa, una voce che è anche un simbolo di resistenza e che nello spettacolo avete legato a Maradona.
«Il progetto dà molto peso al contenuto, la forma è puro accompagnamento. Mercedes l’ho conosciuta a fondo grazie allo spettacolo, studiando i brani e la sua vita, e ho approfondito anche Maradona. Entrambi facevano poesia con il proprio strumento.
Mercedes ha dato un senso nuovo al mio cantare, perché a un certo punto avevo perso un po’ la bussola artistica, che non era quella dei numeri e delle classifiche. Cantava di lotta al disincanto, di ritorno alla terra. Mi ha portato a riscoprire la mia parte napoletana».
Una scelta comunque controcorrente. Quanto è difficile mantenersi fuori dalle logiche di mercato?
«Se dovessi cercare di fare numeri utilizzando dei trucchi mi sentirei morta come artista. Mi salvo restando creativa, slegata da quelle logiche, e non mi posso nemmeno lamentare dei risultati. Pensavo che andasse molto peggio, viste le scelte sconvenienti che continuo a fare. Mantengo fiducia nella musica e poi ho degli ottimi riscontri con i live: questo mi ripaga e mi dà la forza per non sacrificare la creatività per il guadagno. Pago un prezzo di popolarità, ma non mi è mai interessato più di tanto. Non hola hit in radio, ma non è questo il mio mestiere.
Credo che non ci si ammali di musica, ma di notorietà».
Si parla molto di patriarcato e delle difficoltà che incontrano le donne in ogni ambito lavorativo. Lei anni fa ha “pagato” la sua scelta di maternità, rischiando di essere messa ai margini della discografia.
«In un certo senso sì, penso sia inevitabile. Credo che il mercato cerchi di utilizzare al massimo l’eros nella fascia tra i 20 e i 35 anni, vale anche per gli uomini. Solo che la maternità non si sposa con quel modello: toglie mistero, appeal. Però è un percorso talmente formativo che ha contribuito al mio essere donna oggi. Se non mi fossi evoluta non avrei avuto altro da raccontare.
Ricordo alcune persone della tv che mi dissero: “Ti sei rimessa in forma? Puoi fare televisione?”.
Questo mi ha ferita come artista. Ho capito che ero io a fare la storia, ma il giorno dopo essere diventata madre mi chiedevo come avrei fatto, pensavo di dover lasciare tutto perché lacreatura non ce l’avrebbe fatta senza di me».
Ha detto: “Io credo che esistano due modi di fare musica. Uno è quello di raccontare il presente.
L’altro è un modo ispirante, che punta a portare l’ascoltatore più in su rispetto a dove può arrivare”.
«Se vado da un dottore non voglio che mi dica quello che vedo ovunque ma che mi trovi soluzioni, che mi aggiunga un punto di vista diverso. Prima c’era, oggi siamo immersi in una realtà parziale, in cui manca il “come sarebbe bello se fosse”. L’arte dovrebbe darti la possibilità di vedere le cose in un altro modo. Siamo in grado di imparare a fondo solo meravigliandoci. Invece è una lotta al ribasso, tutto un fare cose che può fare chiunque. C’è tanta omologazione».
Il ciclone Sanremo è già iniziato.
Ha detto che ci tornerebbe, ma a quali condizioni? E cosa pensa della svolta degli ultimi anni?
«È stato svecchiato, ha distrutto vecchie dinamiche, ma è un po’ come ilGattopardo, tutto cambia perché niente cambi. Si sono create altre dinamiche ma la proposta è molto uguale a se stessa, manca di varietà di stili.
Forse con Carlo Conti avremo una veduta più ampia, ci sono nomi inaspettati. Ma 30 artisti sono tanti, la musica ha bisogno di essere metabolizzata. Tornerei se avessi un pezzo in cui credo, che non mi snaturi, che possa essere un buon compromesso perché è comunque un palco di musica pop: io ho partecipato sempre un po’ da fuori concorso. È stato già un miracolo andare con quello che facevo».
Con Peter Cincotti nel 2013 siete arrivati penultimi e lui non lo aveva capito…
«Non aveva capito proprio che era una gara. Quando ha sentito leggere la classifica mi ha chiesto come eravamo arrivati: “È buono?”. Alla mia risposta è sbiancato, ma un attimo dopo eravamo sul palco».