Corriere della Sera, 8 gennaio 2025
Intervista a Domenico Starnone
Domenico Starnone, deve a un libro in particolare la molla che l’ha spinta a scrivere?
«Non so, forse, tra l’altro, a un incipit di Italo Calvino che mi causò un magnifico sbandamento. Avevo 17 anni, in casa non c’erano libri. Guadagnavo qualche lira dando ripetizioni e compravo libri alle bancarelle dell’usato. Era tutta roba ottocentesca, dai Misteri di Parigi ad Anton Cechov, da Rocambole a Lev Tolstoj. Entro nel ’900 perché il padre di un mio amico era amico di un libraio che gli prestava qualche volume appena uscito. Il mio amico li passava a me, facendomi giurare che non li avrei rovinati. Così lessi I racconti di Calvino tra cui Luna e Gnac: “La notte durava venti secondi, e venti secondi il Gnac” è un incipit strepitoso, se hai 17 anni e un minimo di vocazione per la scrittura».
In «Vita mortale e immortale della bambina di Milano», ha scritto: da bambini, si può essere tutto, l’esploratore o il mozzo, il naufrago o il «caubboi»... Lei, da bambino, chi era?
«Ero un malinconico, che si metteva in un angolo ed entrava in un’altra realtà, dove si poteva essere il cavaliere e il cavallo, la tigre e il cacciatore. Uno dei grandi piaceri dell’infanzia è potersi inventare mondi diversi da quello in cui sei capitato. Leggere e scrivere diventano la prosecuzione di quel piacere».
E tuttavia, il suo primo libro, «Ex Cattedra», è del 1987: aveva 44 anni.
«Intorno ai 22, scrivo un romanzo stralungo, un “Via Gemito” molto prima di avere gli strumenti per scrivere Via Gemito. Lo rileggo, lo trovo pessimo e decido di non scrivere più. Vado a fare l’insegnante, scopro che insegnare mi piace. A scuola, ogni mattina, ti inventi e inventi i tuoi alunni. L’esperienza è così densa che scrivere finisce da parte».
Con «Via Gemito», grandioso affresco della famiglia patriarcale, vincerà il Premio Strega 2001. Ritiene anche lei, come il ministro Giuseppe Valditara, che il patriarcato sia finito?
«Ma no. Al massimo oggi è difficile trovare un uomo che dica con soddisfazione: sono un patriarca. Ma il disprezzo, la ferocia e la violenza con cui il patriarca insorgeva contro la minima contestazione, quelle sono vive. Io ho raccontato il padre nelle famiglie che si erano formate fra gli anni Trenta e i primi Quaranta, padri cresciuti sotto il fascismo, educati a “fare l’uomo”, espressione introiettata e ripetuta dalle donne di casa: non sai fare l’uomo. Poi, sono passato alla mia generazione. Eravamo stati educati anche noi a fare l’uomo e di quell’imperativo non ci siamo liberati neanche nel clima postsessantottesco: il ciclostile era roba da donne. Però siamo stati rieducati, abbiamo provato altri modelli di coppia e di famiglia, è stato un passaggio d’epoca forte, traumatico. Ma siamo cambiati in superficie, i tratti di fondo della cultura patriarcale ce li siamo portati dietro in ogni ambito».
Per lei, da che cosa è stato difficile affrancarsi?
«Affrancarsi è una parola grossa. Ho 82 anni, sono la somma impossibile di fasi storiche in contraddizione tra loro, ho fatto cose incoerenti, ma va bene così, altrimenti non avrei niente da scrivere. Certo, oggi non posso neanche lontanamente tollerare che qualcuno alzi la voce con una donna in mia presenza, intervengo subito. Ma le cose sono ingarbugliate. In Lacci, il personaggio femminile dice “voi uomini avete tre grandi aspirazioni: scoparci, proteggerci e ammazzarci”. La parola che può stupire è “proteggerci”, ma la protezione è un modo raffinato per ribadire la subalternità dell’altro».
Filippo Turetta non voleva che Giulia Cecchettin si laureasse prima di lui: superandolo avrebbe azzerato il suo ipotetico ruolo protettivo?
«Forse gli è sembrato che la laurea ratificasse la potenza della ragazza e la rendesse dominante. Subalterna devi essere tu, non io che devo “fare l’uomo”. Quindi ti ammazzo perché lì ci vedo la certificazione della mia impotenza».
Lei che tanto ha indagato le crisi di coppia, come in «Lacci» o in «Confidenza», con che spirito ha seguito quelle dei Totti e dei Ferragnez?
«Mah, una volta i panni sporchi si lavavano in famiglia. Mia nonna, quando mio padre litigava con mia madre, andava a chiudere le finestre, si vergognava per loro. Oggi si accende la telecamera e via, si mostra tutto al mondo. Ma l’ultima cosa che mi viene in mente è: una volta, si stava meglio. C’è del positivo persino nella spettacolarizzazione degli orrori di coppia».
Che cosa può esserci di positivo?
«Che non ci si nasconde più».
Lei ha iniziato a pubblicare scrivendo di scuola, quando i suoi racconti da prof diventano una rubrica del «Manifesto», poi un libro, poi un film. Oggi, che cosa pensa di una scuola in cui gli adolescenti vanno in classe col coltello e i genitori picchiano i professori?
«Quando ho lasciato l’insegnamento, ho fatto un patto con me stesso: che non avrei più parlato di scuola, per evitare di farlo a vanvera. Dopo il fervore degli anni Settanta, quella degli anni Ottanta era già, di nuovo, una brutta scuola. L’idea che potesse assicurare a tutti un’istruzione e una formazione di qualità era già contraddetta dai fatti».
Il suo ultimo titolo, «Il vecchio al mare», fa la parodia a Ernest Hemingway. Che vecchiaia ha voluto raccontare?
«Quella che conosco: agiata e colta. È una vecchiaia che non si prende sul serio, che si prepara alla fine prossima senza epica ma anche senza lagne».
Al «Foglio», ha detto: «Tutti abbiamo un’unica sofferenza da raccontare». Qual è quella che ha raccontato lei?
«La perdita prematura della figura materna, che è stata per me l’acquisizione della mortalità. E poi la paura di non avere strumenti sufficienti per dare forma all’esperienza. Nei miei libri ricorrono personaggi un po’ spaventati dalla loro medietà, che hanno più ambizioni che strumenti per realizzarle. Ho provato a raccontarli, fanno la loro apparizione già nelle Illusioni perdute di Honoré de Balzac, attraversano tutto il ’900 e diventano una marea montante negli ultimi decenni. È una folla che giustamente vuole dar prova della propria eccezionalità, ma scopre che nell’epoca dell’eccezionalità di massa è l’eccezionalità a sparire».
Quali scrittori italiani le piace leggere?
«Molti. Leggo con piacere ogni libro di Walter Siti, ma i nomi sono parecchi, è un buon periodo, si scoprono piccole e grandi bravure. A leggere per esempio Le perfezioni di Vincenzo Latronico, fa piacere la sua abilità nelle descrizioni, che erano quasi scomparse dai libri. Oggi non abbiamo libri fondativi, ma parecchi libri buoni sì».
Cos’è un «libro fondativo»?
«Un libro che ci dice in che direzione stiamo andando ed è capace di generare molti ottimi libri. Uno fondativo per il secolo scorso è La recherche. E un libro italiano che ha avuto una latenza riproduttiva di cui non ci siamo ancora resi pienamente conto è La Coscienza di Zeno».
«L’Amica geniale» è fra i libri del secolo, come sostiene il «New York Times»?
«Se mi pronuncio siamo subito ai pettegolezzi».
Per il sospetto che dietro lo pseudonimo di Elena Ferrante si nasconda lei o sua moglie Anita Raja?
«Sono frottole. Comunque credo che sia un ottimo libro. Ma il libro del secolo deve ancora arrivare».
Quando sarà pubblicato l’ultimo libro nella storia dell’umanità?
«La letteratura diventerà non necessaria quando qualcuno inventerà un’App che ci renderà tutti trasparenti. Il problema che la letteratura affronta è la sostanziale inconoscibilità dell’altro. Sa quando diciamo: credevo di conoscerlo, ma mi sbagliavo? Questa opacità è il motore della letteratura, il suo nutrimento. Se ogni pensiero o intenzione diventa visibile, ci saranno fiumi di sangue ma nemmeno un rivolo di inchiostro».