Corriere della Sera, 8 gennaio 2025
Don Peppe Diana ucciso dai clan e accusato di essere camorrista
La famiglia di don Peppe Diana – il parroco di Casal di Principe assassinato nella sua chiesa il 19 marzo 1994 – dopo ventun anni, ha ottenuto giustizia. Soffermatevi su queste due parole: «Ventun anni». Pronunciatele ad alta voce perché no, non basta leggerle tra sé e sé;
È necessario scandirle, deve essere chiaro cosa è accaduto a don Diana, ucciso dalla camorra prima e diffamato da certa stampa locale, poi. Era il 28 marzo 2003, quando il Corriere di Caserta titolò a lettere cubitali in prima pagina con questo virgolettato: «Don Peppe Diana era un camorrista», e poi, come titolo di un articolo interno, un altro virgolettato: «Don Diana custodiva le armi della camorra». È notizia di questi giorni che il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere abbia condannato per diffamazione l’editore Libra Editrice a risarcire con 100 mila euro i fratelli di don Peppino.
Dopo questi titoli, Iolanda Di Tella, la madre di don Peppe Diana, disse: «Mio figlio me lo stanno uccidendo un’altra volta». Don Peppe Diana era stato ucciso a 35 anni mentre si stava preparando a celebrare la messa: un killer lo raggiunse in sagrestia e sparò 5 colpi di pistola per mettere a tacere per sempre il sacerdote che aveva osato sfidare la camorra. I familiari di don Peppe denunciarono questi giornali, ma solo nel 2024 è arrivata la sentenza che ha condannato per diffamazione Libra Editrice (editore di Cronache di Caserta e Cronache di Napoli) e la giornalista Tina Palomba a risarcire con 100 mila euro i fratelli di don Peppe, Marisa ed Emilio, difesi dall’avvocato Alessandro Marrese.
Iolanda Di Tella e Gennaro Diana, i loro genitori, sono morti prima che giustizia fosse fatta, ma la sentenza è storica, perché mostra in maniera inequivocabile come si metta in pratica la strategia di diffamazione di una vittima della camorra: «L’espediente – scrivono i giudici – di riportare nell’articolo le dichiarazioni rese dagli avvocati degli imputati nel processo per l’omicidio del sacerdote appare un maldestro tentativo di camuffare la portata tendenziosa e diffamante delle frasi utilizzate dalla giornalista». Questa è una dinamica tipica dell’uso manipolatorio della cronaca giudiziaria: prendere una qualsiasi dichiarazione, estrapolarla dal contesto e farne titolo per legittimare un’accusa arbitraria. La sentenza lo dichiara: «Il titolo in prima pagina scritto a chiari caratteri cubitali “Don Peppe Diana era un camorrista” ed i titoli in basso rilievo (…) “De Falco ordinò l’omicidio del sacerdote perché custodiva l’arsenale dei Casalesi” (tale ultimo scritto neppure virgolettato), evidenziano un chiaro intento della scrivente giornalista di infangare la memoria di Don Peppino Diana». E ancora: «La gravità dell’offesa alla memoria del loro congiunto, indicato nello sprezzante titolo in prima pagina addirittura quale appartenente alla camorra, ha costituito, essa stessa, una cassa di risonanza mediatica a livello nazionale, creando sgomento e incredulità nell’intera società civile. La sofferenza patita dai genitori e dai fratelli di don Diana appare devastante, in quanto ammazzato dal braccio armato della camorra e infangato nella memoria dall’offesa più grave, senza che egli potesse difendersi».
La sentenza
«Chiaro intento
di infangare
la memoria senza che lui potesse difendersi»
Ma come è possibile che un prete, assassinato barbaramente poco più che ragazzo, possa aver subito questi titoli? Maurizio Clemente, che fino al 2003 è stato editore di Corriere di Caserta e Cronache di Napoli, nel 2011 viene condannato in primo grado a 8 anni e mezzo di carcere dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per estorsione a mezzo stampa. In pratica, secondo i giudici di primo grado, Maurizio Clemente aveva minacciato imprenditori, professionisti e politici della provincia di Caserta di pubblicare articoli diffamatori contro di loro per indurli a stipulare contratti pubblicitari o di consulenza con società da lui controllate. Un vero e proprio «sistema estorsivo-ritorsivo». Tutto però si è fermato al primo grado perché in Appello il reato è finito in prescrizione. Nel frattempo, l’assetto societario dell’editore è cambiato e l’Editoriale Corriere, subissata da contenziosi di lavoro e cause per diffamazione, è fallita. Nel 2009 Maurizio e Pasquale Clemente hanno patteggiato una pena a 2 anni e 6 mesi di reclusione per concorso in bancarotta fraudolenta (pena coperta da indulto).
Ogni anno la cooperativa Libra Editrice (passata nel frattempo a Ugo Clemente, nipote di Maurizio e Pasquale) riceve i soldi pubblici del contributo all’editoria per le due testate: in dieci anni ha avuto dallo Stato oltre 12 milioni di euro. Soldi pubblici al giornale erede di quello che si è reso cassa di risonanza delle peggiori diffamazioni su un prete innocente, ucciso dalla camorra proprio per il suo impegno anticamorra.
C’è una strategia ben precisa nelle dinamiche di diffamazione, identica ovunque e da sempre: far credere che chi si oppone al potere mafioso sia di fatto mosso solo da interessi personali, che chi cade sia sempre parte del sistema, dimostrando indirettamente che il potere criminale colpisce solo chi se lo merita e facendo passare l’idea che vittima e carnefice siano fatti della stessa pasta. Un parallelo, ovviamente, denigrante per un sacerdote e pericolosissimo, perché diventa base di quell’assioma malato («si ammazzano tra di loro», «è roba loro», «sono cose che non ci toccano») che ha sempre riguardato il fenomeno mafioso. E ha sempre indotto a sottovalutarlo, a non prendere posizione per contrastarlo.
La diffamazione
Il Corriere di Caserta attaccò il sacerdote: «Don Diana era un camorrista»
La paura di essere delegittimati è una paura che accompagna chiunque decida di combattere il potere criminale e politico. Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa a Mosca nel 2006, aveva molta più paura di essere delegittimata che uccisa, perché l’omicidio interrompe il tuo racconto, ma la delegittimazione erode tutto ciò che hai scritto, lo cancella.
Don Peppe Diana amava ripetere: «A voi le pistole, a noi la parola». Era fermamente convinto che per contrastare lo strapotere dei clan fosse necessario educare le nuove generazioni sia con la testimonianza di vita sia con la parola. Con questa condanna un altro tassello di giustizia – se giustizia si può chiamare una sentenza che arriva dopo ventuno anni – si è aggiunto al lungo restauro della sua memoria per cui la famiglia Diana e gli amici di don Peppe non hanno mai smesso di battersi.