Avvenire, 7 gennaio 2025
Boom di vendite d’armi dello Stato ebraico
È una nuova età dell’oro per il business delle armi. L’implosione dell’ordine internazionale e il ritorno di guerre convenzionali fra eserciti nuovamente attratti dalla massa, dalla quantità (non meno che dalla qualità) e a foraggiare magazzini, fattisi esili per un ventennio di dividendi di pace, sta spostando immani ricchezze. È un fenomeno in cui i dati reali la dicono lunga su un mondo dove si guerreggia. Nel 2023, si sono registrate 22 guerre maggiori, 2 in più che nel 2022, e la conflittualità violenta è aumentata ancora maggiormente nel 2024, dilaniando 56 aree di crisi. E chi dice guerre, o conflitti, dice flussi crescenti di armi, plusvalore-vetrina di sistemi vecchi e nuovi, provati sul campo di battaglia, un laboratorio reale, foriero di profitti in crescita vertiginosa: nel 2015, i primi 100 produttori di armi fatturavano in casa e all’export 356,7 miliardi di dollari, 60% dei quali in pancia a colossi statunitensi. Gli ultimi dati disponibili, relativi al 2023, parlano di un business in crescita a 603,9 miliardi e di attorivecchi e nuovi: significa che ogni giorno i primi 100 fabbricanti guadagnano circa 1,65 miliardi di dollari. Parliamo di un mercato talvolta enigmatico che, secondo uno studio del 2019, citato dal pensatoio Grip, non è affatto immune dalla corruzione. Vendere armi significa però orientare la politica estera e strategica di un paese, creando circuiti di assistenza-dipendenza 20-40ennali fra cliente e fornitore. Se si escludono alcuni prodotti, non venduti dagli Stati Uniti per superiorità sovrana, tutte le armi convenzionali sono concepite ab initio tenendo conto non solo delle esigenze nazionali, ma anche del mercato, in cui gli stati sono il fulcro di quasi tutte le attività, essendo spesso azionisti principe dei produttori, come osserva il direttore di ricerca del Grip, Yannick Quéau. Il governo israeliano controlla ad esempio il sistemista Rafael ed ha una quota di maggioranza in Iai, colosso dell’aerospazio, mentre la russa Rostec è una mega-corporation statale. Parliamo di Paesi ora in guerra, accomunati da destini d’export divergenti. Spesso tragicamente brillanti, le armi israeliane vanno a gonfie vele: macinano affari da anni e i successi, più o meno recenti, dei suoi missili antimissile, antiaereo e antidrone stanno trainando le vendite, alimentate anche da sistemi a pilotaggio remoto, dall’elettronica e da prodotti cibernetici. Grande importatore, Tel Aviv è al contempo mercante: vende fra gli altri in Europa, in Asia sudorientale, in India e nel Caucaso. Si calcola che i suoi droni servano in oltre 50 Paesi, parte di un commercio che, unito alle fortune di altre armi israeliane, è valso 13 miliardi di dollari nel 2023, tanto da far dire al numero uno del direttorato Sibat, brigadiere generale Yair Kulas, di un export «raddoppiato nell’ultimo quinquennio». Gli affari, forse meno opulenti di un tempo con gli alleati degli accordi di Abramo, non sono stati intaccati minimamente dalle critiche sugli eccessi nella guerra e dagli embarghi (più o meno velati) di alcuni governi. Un successo che contrasta con le difficoltà all’export dell’industria bellica russa, in declino per numero di clienti e quote di mercato, complici la priorità accordata all’Armata rossa, le sanzioni, la maggiore autonomia produttiva di clienti storici, Cina su tutti, la diversificazione-sovranizzazione dell’India e un modus operandi in Ucraina che ha rivelato lacune in alcune armi russe, non ad altezza di fama. Solo il futuro dirà se i mali dell’industria russa sono transitori o se segnano una contrazione longeva sui mercati.