la Repubblica, 7 gennaio 2025
Elisabetta Belloni si dimette
«Non ne potevo più, perché trascinare le cose così non era giusto e non aveva senso». Nelle parole che Elisabetta Belloni, direttrice dimissionaria del Dipartimento per le informazioni della sicurezza (Dis), con la garbata sincerità che le è propria, va ripetendo a chi la cerca privatamente per afferrare il senso di una decisione, ci sono due verità. La storia di una dissipazione politica e la presa d’atto, amarissima, di aver visto infrangersi una scommessa. Che solo una riserva della Repubblica come questa diplomatica di lungo corso, romana di 66 anni, colta, rigorosa, e dalla formidabile rete di relazioni istituzionali e personali costruita nel tempo nei suoi diversi incarichi apicali alla Farnesina (capo dell’unità di crisi, direttrice generale per la cooperazione e lo sviluppo, segretaria generale), aveva sinceramente pensato di poter vincere quando Giorgia Meloni aveva raccolto l’eredità del governo Draghi chiedendole di restare al suo posto. Per la sintonia che avevano trovato, per la stima, tutt’altro che nascosta che la nuova premier, dieci mesi prima di prendersi il Paese, aveva manifestato nei suoi confronti, al punto da averla sostenuta nella candidatura alla presidenza della Repubblica nata e tramontata nello spazio di una notte.Elisabetta Belloni era convinta davvero in quell’autunno del 2022 che il disegno con cui Draghi l’aveva chiamata al vertice della nostra intelligence, e cioè che la sicurezza nazionale e i suoi apparati non dovessero fare eccezione rispetto a un’idea e a una concezione bipartisan di “sistema Paese”, potesse diventare patrimonio di un nuovo esecutivo che sebbene pienamente politico e fortemente connotato a destra aveva nondimeno dalla sua la forza dei debuttanti. In quanto tali liberi, almeno sulla carta, dalla zavorra e dalla miopia del piccolo cabotaggio di palazzo, dagli agguati del potere dei cacicchi. Che quando si parla di sicurezza nazionale sanno diventare tanto feroci quanto esiziali nelle loro conseguenze.E bisogna dunque immaginarla la solitudine di questa donna che alla vigilia di Natale – le sue dimissioni sono datate 22 dicembre – nel silenzio del suo buen retiro in campagna con i suoi amatissimi cani, non solo constata che la sua decisione di fare un passo indietro non susciti alcuna fibrillazione nel governo e nella premier che non sia quella della gestione del segreto sui tempi e le ragioni della sua uscita. Ma che quell’annunciato passo indietro si traduca addirittura nel ritenere superfluo da parte di Palazzo Chigi anche solo coinvolgerla nei primi decisivi giorni di discussione sulle strategie da definire nella gestione dell’arresto in Irandi Cecilia Sala. È vero, aveva deciso e comunicato la sua intenzione di lasciare il Dis, ma nessuno in quei giorni che si trascinano fino al 26 dicembre – né il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano, né la premier, per non dire del ministro degli esteri Tajani – riterrà opportuno alzare il telefono per ascoltarne il parere.Ma bisogna anche immaginare l’amarezza di questa donna, cui premier e governo avevano chiesto il segreto sulle sue dimissioni fino alla definizione e ufficializzazione della sua successione in queste prime settimane di gennaio, come gesto di lealtà e correttezza istituzionale, nel leggere ieri su Repubblica «una notizia che certo non ho dato io» e fonti di governo ipotizzare per lei nuovi incarichi europei già pronti. Dal suo punto di vista, un’ultima offesa. Perché – come ha ripetuto ieri a chi cercava conferme sul suo futuro – «chiunque mi conosce sa che non sono una persona che decide di lasciare un incarico solo se ha la garanzia o la certezza di riceverne uno nuovo».È vero, Ursula von der Leyen, da tempo e senza farne mistero, la lusinga con la prospettiva di un ruolo di peso a Bruxelles, ma tutto questo con la decisione di lasciare il vertice del Dis non avrebbe nulla a che vedere. Dunque, bisogna accontentarsi – si fa per dire – di una verità più semplice e politicamente assai più indigesta per Palazzo Chigi. Elisabetta Belloni è stata consegnata per mesi alla silenziosa e corrosiva esperienza di chi, pur avendone rango, ruolo e esperienza, finisce per constatare che, ogni giorno, il suo raggio di azione, il suo peso nelle scelte “di sistema” che pure la interpellano direttamente, vengono meno. Che, prive di una regia unica, solida e credibile, politica estera e sicurezza nazionalemarciano in ordine sparso, per giunta in un contesto globale sempre più complesso, deteriorato e gravido di rischi. Una circostanza per altro confermata da chi, a metà novembre, nei giorni del G20 di Rio de Janeiro, ha modo di incrociare Belloni. «Faceva fatica – racconta la fonte – a dissimulare la sua crescente insofferenza e irrequietezza e persino l’entourage della premier sembrava viverla con fastidio». Di quell’insofferenza Belloni aveva motivo. Perché l’estate che si era appena lasciata alle spalle, quella tra gli ulivi di Borgo Egnazia, in Puglia, dove era di fatto culminato il suo lavoro di sherpa per il G7 cui a sorpresa l’aveva voluta personalmente Meloni, si era trasformato nel suo termidoro.Per un uomo ossessionato dal controllo come il sottosegretario Mantovano e per un ministro degli esteri politicamente debole come Tajani, Belloni era diventata ingombrante. Lei aveva avvistato il pericolo. E per questo aveva chiesto a Meloni, se necessario anche con un atto formale che in qualche modo mettesse ordine nella babele di ruoli e gerarchie sulla sicurezza nazionale, di essere messa al riparo dalla condizione di doversi costantemente difendere da continue sgrammaticature nel necessario rapporto con Palazzo Chigi e con le due agenzie di intelligence – Aisi e Aise – sempre più frequentemente chiamate a un’interlocuzione politica e operativa diretta con Mantovano senza dover prima passare per il suo ufficio.Ma Meloni non ha evidentemente voluto o potuto difenderla. Sostengono fonti di governo perché «delusa» o forse «non così pienamente soddisfatta» dei risultati portati a casa da Belloni con il G7. O magari, e più semplicemente, perché nel nuovo contesto geopolitico che si determina in autunno, alla viglia delle elezioni Usa che vedranno la vittoria di Trump, Meloni decide di giocare in prima persona la partita con la nuova Casa Bianca e di poter dunque rinunciare alla donna che, solo due anni prima, era stata la sua chiave di accesso alle cancellerie che contano nel mondo.È un fatto che, negli ultimi mesi, Belloni sia tagliata fuori dall’accelerazione che Meloni imprime al suo rapporto con Musk e Trump e dalle conseguenti ricadute e contropartite che questa comporta, anche e soprattutto in termini di sicurezza nazionale (parliamo degli accordi con Space X per l’uso della rete satellitare Starlink). Così come è un fatto che alla Farnesina si smetta anche solo di dissimulare il fastidio con cui Tajani tollera la convivenza con una direttrice del Dis che percepisce, di fatto, come un ministro degli esteri ombra.Sfilarsi, insomma, non era più solo una possibilità. E ora le acque possono definitivamente richiudersi.