La Stampa, 6 gennaio 2025
Le tasse contro le diseguaglianze sociali
È da poco terminato l’anno in cui articoli e libri hanno commemorato il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, rapito e ucciso nel giugno 1924 da una squadraccia fascista. Gran parte di questi lavori ne ricostruiscono l’esistenza, l’impegno politico, la lungimiranza e, in particolare, la morte. E da pochi giorni è stata ricordata la data – il 3 gennaio – in cui Mussolini rivendicò il suo assassinio.La tragica fine, tuttavia, ha oscurato molto della sua attività precedente alla marcia su Roma. Conosciamo per lo più il Matteotti oppositore del fascismo, che paga con la vita la contrarietà alla nascente dittatura. Conosciamo meno, invece, dei suoi studi e dei suoi interessi.Pochi sanno, ad esempio, che una parte centrale della sua attività fu rivolta alla questione fiscale, intesa come uno strumento per costruire una società più giusta, ridurre gli squilibri, alleviare la miseria delle classi più povere e ridistribuire la ricchezza.A rivelare questo volto inedito di Giacomo Matteotti è Francesco Tundo, che nel suo La Riforma Tributaria. Il metodo Matteotti esplora uno dei lati meno noti dell’esponente socialista. Si scopre così che l’Italia uscita dalla Grande guerra rivelava sorprendenti analogie con quella odierna, a cominciare dalla pressione fiscale, già all’epoca fra le più alte d’Europa. In questo contesto, le principali critiche riguardavano gli «accertamenti rilassati sulla base di medie, contrattazioni e concordati» con cui il fisco procedeva verso i contribuenti (come denunciava Luigi Einaudi), lo sbilanciamento del prelievo sui lavoratori dipendenti, le rendite catastali non aggiornate da decenni, l’insuccesso nella tassazione degli (extra)profitti conseguiti dall’industria bellica durante il primo conflitto mondiale, lo svuotamento del ruolo del Parlamento operato dalla decretazione d’urgenza.Con le sue proposte Matteotti è assolutamente moderno rispetto ai suoi tempi. In primo luogo, è uno dei pochi – forse l’unico – ad avere piena consapevolezza che il debito pubblico è una minaccia che incombe sul futuro: «Stiamo percorrendo una strada molto pericolosa in Italia – afferma nel 1920 con straordinaria lungimiranza –. Viviamo tutti sui debiti e ci creiamo un baratro per domani». Al tempo stesso, è profondamente critico verso quei provvedimenti, come le imposte sui consumi, utilizzate per ripianare il deficit causato dalla guerra, ma che colpivano le fasce più povere della popolazione.Tuttavia Matteotti è anche colui che propone la progressività delle imposte (oggi scontata, all’epoca un’eresia); è favorevole all’introduzione di un’imposta personale progressiva (l’odierna Irpef) e di calcolarla su base familiare anziché individuale, come qualcuno sostiene ancora oggi, ritenendo possa fotografare meglio l’effettiva capacità contributiva; addirittura suggerisce di far partecipare i Comuni nel contrasto all’evasione, incentivandoli attraverso la destinazione di parte delle risorse recuperate, come sarebbe poi stato previsto più mezzo secolo dopo.Per Matteotti il fisco non è un aspetto a sé, ma è ciò su cui si fonda il patto alla base della comunità ed è dunque inserito in una più ampia visione politica fondata sull’uguaglianza dei contribuenti, un tema che all’epoca non era affatto scontato. Di conseguenza il sistema tributario è concepito come perno attorno al quale costruire una comunità, una specie di tessuto connettivo della società che necessita di una sistemazione razionale per poter realizzare la giustizia sociale. L’idea del fisco come leva per ridurre le differenze sociali è lungimirante per l’inizio del Novecento, tanto che avrebbe trovato degna collocazione – terminata la dittatura – nella nostra Carta, dove la progressività delle imposte è divenuto addirittura un principio costituzionale. Un principio che deve la sua presenza anche ai semi gettati da Matteotti, convinto che far pagare a tutti i cittadini una stessa cifra o richiedere proporzionalmente lo stesso sacrificio economico avrebbe contribuito a perpetuare le disuguaglianze di partenza. Come avrebbe detto don Lorenzo Milani qualche decennio dopo, «Non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali fra disuguali».Matteotti, però, è avanti anche rispetto alla sua stessa parte politica, che predica la rivoluzione con un’oratoria incendiaria, ma trascura le questioni concrete. E così, consapevole che per un politico sia fondamentale capire come funziona un bilancio, nel 1920 collabora al Manuale per gli amministratori degli enti locali, pensato per fornire gli strumenti di base alle giunte socialiste che si trovano a governare un numero crescente di città e paesi.Quando viene eletto deputato, questa visione pragmatica e scientifica confluisce nell’attività parlamentare, fatta di studi, ricerche e statistiche, che gli servono come base per i suoi interventi in Aula. Perché Matteotti non affrontava i temi politici prima di un attento e scrupoloso studio di ogni aspetto, senza lasciarsi trasportare da una facile e inutile retorica assai in auge all’epoca. Anche questa è una novità pressoché assoluta, che per la sua lungimiranza fa tornare alla mente le parole pronunciate pochi anni dopo da Alcide De Gasperi, quando era un semplice impiegato della Biblioteca Vaticana, strettamente sorvegliato dall’Ovra: «Dobbiamo prepararci a quello che verrà dopo il fascismo».È facile capire, insomma, come – al di là della stima di cui godeva – ben prima del fascismo Matteotti fosse una spina nel fianco per ogni esecutivo. Al tempo stesso, Matteotti rifugge il populismo fiscale che ancora oggi riscuote tanta fortuna: «È dannoso l’additare all’odio del popolo le tasse, le imposte – scrive nel 1907, ad appena 22 anni –; noi dobbiamo limitarci a dimostrare che le imposte sono mal distribuite, ma diffondere nel tempo stesso la persuasione che sono assolutamente necessarie».Insomma, sembra argomentare Matteotti, le tasse non sono belle né brutte, ma soltanto indispensabili, perché senza risorse non può esistere nessun progetto politico, non può essere scritto nessun programma di governo e non può essere raggiunto nessun obiettivo. E la scelta di come le risorse possano essere trovate e impiegate è una scelta puramente politica. Nel nostro Paese, invece, a distanza di un secolo, sembra ancora che le tasse vengano imposte da un’entità avvertita come estranea.Viene in mente una frase pronunciata in quegli anni da un altro brillante intelletto: «Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana». La frase è di Piero Gobetti e risale proprio al 1924. Nel giro di un paio di anni, ironia del destino, anche a lui sarebbe toccata la stessa sorte di Matteotti: morire a causa di un’aggressione di camicie nere.