Tuttolibri, 5 gennaio 2025
Carlo Levi in Sardegna
Si ha una strana sensazione a leggere dall’interno questa incredibile raccolta di scritti che documentano due viaggi successivi, nei primi anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta, di Carlo Levi in Sardegna. E quando dico “dall’interno”, intendo dalla parte di qualcuno che, da nuorese, nei luoghi descritti c’è nato, cresciuto e si è formato. È probabile che, in occasione del suo secondo soggiorno in Barbagia, Carlo Levi abbia incrociato per corso Garibaldi o per via Lamarmora mia madre che mi trasportava, neonato, in carrozzina. Perciò questo mio sondaggio, attraverso le parole dello scrittore e pittore torinese, non potrà esimersi dall’essere, a tratti, privatissimo e ai limiti dell’autodafé.Confesso che rileggere dopo tanti anni Tutto il miele è finito ha rinnovato, forse peggiorato, quel senso di intimità e quel privilegio del capire le cose, soprattutto i non detti, che era stata la mia reazione spontanea alla prima lettura, poco più che adolescente. Un’intimità che allora generò, e oggi più che mai genera, una serie di riflessi più che riflessioni. Giustapposizioni che possono avvenire solo a patto di assumere questi contenuti come le straordinarie intuizioni di un uomo meravigliosamente aperto, anziché come il semplice reportage di un viaggiatore curioso.Il primo riflesso è un accostamento ardito tra le cornacchie Orune e Oliena, che Levi si porta dalla Barbagia fino a casa in Continente facendole migrare nella pancia di un uccello tecnologico, e quel «nido di corvi» attraverso il quale Salvatore Satta, pochi anni dopo, descriverà la Nuoro dei primi del Novecento nel suo capolavoro Il giorno del giudizio. Evidentemente i corvidi, la loro neritudine, la loro insondabile acutezza, si attagliano, nel bene o nel male, a descriverci in quanto sardi. E ancora di più in quanto barbaricini. Perché, ad essere onesti, in questo resoconto di viaggio la porzione dedicata alla Barbagia è assolutamente preponderante, e anche la più riuscita da un punto di vista stilistico. Non a caso le due cornacchie di Levi si chiamano come i due paesi dell’interno che lo scrittore pare avere più amato. Altri riflessi dipendono dalla precisa coscienza di trovarsi in una sorta di porta temporale, in cui l’estremamente arcaico, omerico, si sta per scontrare con l’estremamente contemporaneo.Levi percepisce di essere in una macchina del tempo, ma capisce che questa è una percezione che richiede un patrimonio di riferimento che si acquista solo attraverso la giusta distanza. E capisce che è circondato da un organismo debolissimo su questo punto, un organismo che si avrebbe la tensione di difendere a tutti i costi e di mantenere in vitro nella sua purezza primigenia. Eppure, nonostante l’uso, e talvolta l’abuso di termini come «arcaico», «primitivo», «preistorico», nel resoconto di Levi sussiste la malinconica coscienza di chi si rende conto di assistere alla fine di un’era, alla definitiva scomparsa di un mondo estremo. Levi intuisce che le persone che incontra, dal sud civilizzato all’interno barbarico della Sardegna, sono prive di anticorpi ed esposte al tremendo contagio di una modernità istantanea. Una terra che agisce come se non avesse una precisa coscienza della sua piccolezza ma si proiettasse nel pensiero di sé come un immenso continente. Levi cioè afferra, per chi leggesse le sue parole dall’interno, qualcosa che molti sardi non hanno afferrato se non dopo molti anni e dopo molte scelte scellerate, vale a dire l’assenza di un senso di sé.«Il paese dei Briganti». Un esempio, in questo senso, è dato da un’accezione dell’interno che Levi documenta non come suo luogo comune, ma come luogo comune generato in Sardegna. È proprio un commerciante cagliaritano che, riferendosi alla Barbagia, usa quella formula. E ciò dimostra quante idiozie può produrre un malinteso senso di sé. E quante ne produce l’idea che l’unica strada per rispondere alla mancanza di senso che ci attraversa, in quanto sardi, sia quella di negare i dati reali, la storia che ci ha attraversato, le scelte che abbiamo fatto. Cominciamo dunque dal fatto che noi sardi della nostra storia ne sappiamo assai poco. Tra l’epopea nuragica e quella della Grande Guerra, Sa Gherra, non c’è nient’altro che una voragine farraginosa di notizie generiche: giudicati, Pisani, qualche secolo di Spagnoli, Nelson a Cagliari, Angioj, annessione al regno piemontese, legge sulle chiudende, Su Connottu. Questo trascorrere di secoli tra le due epopee, fatto per lo più di sconfitte con rare vittorie, è diventato, nella nostra triste mensa, cibo per storici raffinati. Il destino dei vinti è di allevare l’illusione di sé a furia di leggende private, che servono a solleticare il bisogno di consolazione.Sulla carta noi sardi saremmo innervati da quella che è stata definita «costante resistenziale», un’attitudine che ci vedrebbe refrattari alle influenze esterne, poco malleabili, impossibili da governare e da conquistare. E tutto ciò nonostante la deprecabile e depressiva attualità che ci contraddice in ogni senso. Le culture si rafforzano in rapporto alla coscienza di sé, in rapporto cioè alla capacità di restare in contatto con la propria natura e con la propria storia, senza infingimenti, senza fraintendimenti, senza autocommiserazione. Siamo quel che siamo o quello che ci raccontiamo? Siamo davvero quegli indomabili custodi che tengono viva la fiamma del passato e, contemporaneamente, attizzano quella del presente con la perizia di chi ha capito la propria missione, o di chi conosce a fondo la propria natura, o di chi sa declinare le tappe del proprio sviluppo, o, infine, di chi, semplicemente, ha coscienza delle proprie sconfitte?Levi non si schiera mai riguardo questa diatriba, lascia che a rispondere a queste domande siano, di volta in volta, le persone o i luoghi che incontra. Ma capisce che alla domanda delle domande sulla presunta indomabilità, si risponde che non lo siamo. E non lo siamo perché occorrerebbe una caratteristica che a noi manca quasi del tutto: la capacità di rispecchiarci.Qualunque visione, a noi sardi, appare distorta. Non c’è scrittore, non c’è storico, non c’è cronista che sia autorizzato a rappresentarci adeguatamente. Nemmeno un cronista «sotto tono», in punta di piedi, come Carlo Levi. Nemmeno discipline come la Politica, l’Antropologia, la Scienza, la Cultura. Siamo stati i più strenui nemici dei nostri scrittori. Siamo talmente avvitati nella consolazione di noi stessi da pretendere, costantemente, conferme anziché motivi di riflessione. Questo ci ha reso tutt’altro che resistenti. Al contrario ha stabilizzato e incancrenito, direi reso cronico, il morbo del colonizzato: diventare il principale carnefice di sé, l’auto punitore, l’auto censore. Sicché ci appassiona sostanzialmente solo quanto ci conferma, non certo quanto mette in pericolo l’idea protettiva e autocelebrativa che ci piace di coltivare.Siamo i principali consumatori del nostro folklore. In un mercato rivolto naturalmente all’esterno, al turista, il folklore non è nient’altro che la sintesi addomesticata delle proprie attitudini, noi sardi siamo tra i pochissimi che possono essere definiti turisti di se stessi.Levi, che è un viaggiatore e non un turista, ci rivela che siamo talmente sconosciuti a noi stessi da scoprirci ogni volta con meraviglia autocompiacente; ci appassiona il ballo da palco, ci appassiona il dibattito sul coccio nuragico, ci appassiona il mito dei centenari, ci appassiona la pubblicazione strenna sul plissé o sulla variante di pane o dolce, ci appassiona la mitologia del brigante, ci appassiona l’erudito locale, ci appassiona l’idea che abbiamo inventato tutto noi: che il latino derivi dal sardo, che gli etruschi fossero fuoriusciti sardi, che la Sardegna fosse Atlantide. Crediamo di sapere, ma siamo il frutto di un costante, testardo, fraintendimento. Crediamo di essere pastori di ovini per esempio. «Con la distruzione dei boschi, nella grande guerra, vennero le pecore, e vennero i contadini a coltivare le terre diboscate».Levi è l’unico viaggiatore a spiegarci qualcosa che noi crediamo di sapere, ma non sappiamo veramente. Crediamo cioè che il nostro destino, quasi il nostro marchio, sia la pecora. Con noi, tutto il mondo lo crede. E invece no. Siamo stati assai più a lungo, omericamente, porcari e caprai. La pecora, rispetto alla nostra storia, è relativamente recente anche se più antica di quanto Levi asserisce, direi, nella forma diffusa odierna, un apporto piemontese in seguito alle esigenze di latte per l’industrializzazione e diffusione del pecorino romano. Crediamo che i muretti a secco ci rappresentino come struttura autoctona. E invece no. I muretti a secco sono l’espressione della nostra sconfitta maggiore, sono l’innesto del feudalesimo in una porzione di mondo che l’aveva bypassato e, dunque, l’innesto forzoso della proprietà privata dove esisteva l’uso comune delle terre. Apprezziamo le nostre estese pinete, tutto il mondo le apprezza, ma esse sono il frutto di una revisione, direi botanica, del nostro ecosistema da parte di governanti, o conquistatori, che avevano esaurito il nostro patrimonio boschivo autoctono per farne rotaie di una rete ferroviaria che, da noi, non è mai arrivata in maniera sistematica. C’incantiamo, non senza ragione, per i nostri cori. Ma anch’essi sono entrati recentemente, solo dopo la Grande Guerra, nel novero delle nostre caratteristiche, solo cioè dopo il contatto con gli alpini e le loro attitudini canore. Prima che fossimo scaraventati sul Carso, in Sardegna si cantava in quattro, massimo cinque. Dal Carso abbiamo riportato, direttamente dalla divisa del fante, anche quella versione ellenica, in cuoio, delle drappelle che abbiamo ribattezzato gambali e che, erroneamente, vengono ritenuti reperti nuragici. Ci piace dichiararci millenari, ma esponiamo gli esiti più recenti della nostra storia colonizzata e dimostriamo quanto conti la coscienza e la conoscenza di sé, quando si tratta di raccontarsi adeguatamente. Noi colonizzati ci raccontano con un surplus di ansia, con un complesso costante del figlio cadetto, sia quando ci incensiamo senza ratio, sia quando, senza ratio, ci umiliamo.Siamo, dice Levi, un «nuovo museo preistorico». Cioè un organismo sclerotizzato. Siamo un organismo senza Storia, abbiamo infilato i secoli in un setaccio a maglie strettissime che ha selezionato e fatto passare materiali sottilissimi, ma spesso ininfluenti, a danno di sistemi ponderosi, e determinanti per chiunque abbia la passione, e il coraggio, di un’autoanalisi senza sconti. E l’abbiamo fatto noi. Se anche lontanamente assomigliassimo all’immagine che ci piace di noi, tutto questo non sarebbe accaduto: parleremmo correntemente il sardo, con l’italiano e magari con l’inglese; saremmo danzatori provetti in piazza, non certo spettatori per chi balla sui palchi; saremmo appassionati di chi ci pone domande anziché di chi ci dà le risposte che vogliamo sentirci dare. Saremmo cioè una cultura che sa discernere l’immensa differenza tra le parole Folklore e Memoria. Perché la prima è consolatoria, una specie di photoshop antropologico a cui ci sottoponiamo paradossalmente per noi stessi. Se fosse per il mondo circostante, per sviluppare un’economia turistica conveniente, per attrarre lo straniero e fargli pagare sonoramente quell’esperienza, andrebbe persino bene, ma purtroppo non è cosí, lo facciamo per noi, e praticamente gratis. A guadagnarci sono tutti gli altri. La seconda parola, Memoria, è faticosa e richiede un patrimonio acquisito; richiede un’ammissione definitiva dei danni connessi alla nostra, questa sí ostinata, autoreferenzialità. Richiede cioè la fatica immane di abitare un senso di sé.E da qui il secondo importante riflesso, che prende corpo nell’accostamento che fa Levi tra l’attitu orunese della madre che lamenta finito il miele dell’amore filiale e la fine del miele che dà il titolo alla raccolta. Ma dall’interno, in questo senso, esiste un riverbero ancora più calzante, che fa riferimento ad un’opera fondamentale per i sardi, quel Miele amaro di Salvatore Cambosu, da qualcuno giustamente definito «almanacco di un’identità perduta». E il cerchio si chiude.