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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

Biografia di Emanuele Vietina, capo di Lucca Comics & Games:

Come immaginarci, o come provare a interpretare, la cultura che agita il mondo delle immagini e della scrittura di questi anni che sembrano scorrere senza punti di riferimento? La domanda sorge spontanea visitando la mostra milanese di Yoshitaka Amano, un nome che a me, confesso, non diceva niente fino a qualche tempo fa. Ma la folla che si accalca negli spazi della Fabbrica del Vapore lascia intuire le proporzioni di un fenomeno vasto e sorprendente quanto a consensi. Amano è un signore giapponese, un settantenne venerato per le sue pitture, i disegni, i fumetti e soprattutto per i videogiochi: siamo nella ludo tecnologia, un mondo fatto di nerd e di geek, di secchioni e di spavaldi intrisi di rampante tecnofilia. Alla mostra di Amano (visitabile fino a febbraio) incontro uno dei realizzatori: è Emanuele Vietina, a capo di Lucca Comics & Games: «La relazione tra questa mostra e Lucca Comics – dice Vietina – è non tanto che noi abbiamo creduto in lui, quanto che Amano ha creduto in noi, nella nostra passione per le sue opere».Che artista è Yoshitaka Amano?«Tra i grandi della tradizione giapponese, Amano è quello che più ha assorbito alcuni aspetti della cultura visiva occidentale. Penso al Surrealismo e all’ArtNouveau, ma anche ai supereroi di Neal Adams, tra cui spicca Batman. E poi c’è la sua collaborazione con Neil Gaiman per le copertine dedicate alla serieSandman, una saga a fumetti che ha entusiasmato, tra gli altri, Stephen King. Era giusto che Lucca Comics rendesse omaggio a Yoshitaka Amano con un catalogo e una mostra».Che ruolo svolgi per Lucca Comics?«Faccio un po’ di tutto».Ti definisci “Dungeon Master”. Che vuol dire?«È una vecchia storia che risale a un gioco di ruolo famoso, Dungeons & Dragons. Cinquant’anni fa rivoluzionò la maniera di giocare. Un gruppo di partecipanti e in mezzo un master, una specie di regista-narratore che assegna i ruoli, costruisce le trame e si aspetta che vengano arricchite dai partecipanti. È un po’ il mio ruolo in Lucca Comics & Games. Non sono, o meglio non mi sento un direttore che impartisce ordini. Non c’è una catena verticale. Ho imparato ad assumermi le responsabilità, non solo per i contenuti culturali. Ogni atto artistico ha un’implicazione tecnica, amministrativa e finanziaria. Non è facile accogliere e gestire quasi settecentomila presenze che per una settimana (a cavallo tra ottobre e novembre) si riversano su Lucca».Di Lucca Comics si è parlato tantissimo, la cosa interessante è provare a capire cosa c’è dietro un’affermazione che non ha eguali in Europa.«Ogni successo ha buone idee di partenza, molta pazienza per realizzarle e tantissima fortuna».Ho l’impressione che voi abbiate ridisegnato il concetto di gioco.«Abbiamo reso possibile il coinvolgimento del pubblico. È quello che io chiamo la formazione di unethos comune. Negli anni abbiamo realizzato non tanto un festival quanto un romanzo di formazione, una comunità emozionale. Non è facile raccontarne la specificità. Ma so che l’intensità del mondo posso trovarla in un libro, in un fumetto o in un gioco di ruolo».In fondo stai dicendo che ognuno ha diritto al proprio quarto d’ora di felicità.«C’è la voglia, questo sì, di cercare insieme un po’ di sorriso e di felicità. E il gioco, il fumetto, la narrativa fantastica sono un collante fondamentale. Come pure sono un collante le mostre. Accennavi aDungeons & Dragons su cui quest’anno abbiamo fatto la più grande esposizione che mai sia stata realizzata al mondo. Poi c’è il grande fenomeno del cosplay».Cosplay, per capirci, è il travestimento con le maschere che si richiamano ai personaggi di fumetti e videogiochi. Qualche critico dice che sono una carnevalata.«Il cosplay non ha niente a che vedere con il carnevale. È una disciplina che nasce da un sogno autoriale».Lo dici come se l’accostamento con il carnevale fosse offensivo.«Il Carnevale è un rituale. Una irruzione “disordinata” nella quotidianità. In quell’intervallo di tempo tutto è lecito, tutto è ribaltabile. Ma poi ogni cosa torna come prima. La maschera carnevalesca indica proprio questo stato di eccezione. Ma il cosplayer non si maschera».Cosa fa allora?«Se mi maschero nascondo la mia identità dietro l’atto dionisiaco. Invece il primo cosplayer della storia è Don Chisciotte che veste i panni degli eroi che ama. Parte di lì per costruire nuove narrazioni, nuove storie. È questo che fa la differenza. Nel 1973 Gianni Rodari pubblicava La grammatica della fantasia. L’anno dopo, negli Stati Uniti, in un paesino sconosciuto del Wisconsin, un gruppo di amici, capitanati da Gary Gygax e Dave Arneson, inventa Dungeons & Dragons.Alla fine quel gioco di ruolo utilizza la stessa “cassetta degli attrezzi” di cui parlava Rodari. Per lui imparare a costruire delle storie da soli significava esercitare la propria libertà, dichiarare la propria indipendenza dal mondo. Ecco il senso autentico del cosplay».Che non va confuso con il carnevale.«Il carnevale è il massimo della trasgressione. Fare cosplaying è il massimo dell’impegno. Siamo al lato opposto dell’escapismo, della fuga dalla realtà».Un cacciatore di sogni?«Il cosplayer assume il sogno di un autore e lo reinterpreta. Crea un costume, magari seguendo i bozzetti di Amano, le storie di Go Nagai di Goldrake o quelle delSignore degli anelli. Quando lo indosserà potrà provare a entrare nella fantasia dell’autore e farla sua, arricchirla, cambiarla».Si usano gli “attrezzi” che la storia mette a disposizione.«Rodari, in polemica con Nilde Iotti, diceva: non importa se i bambini reinventando il mito di Ercole se ne allontanano. Perché non si può mettere un freno alla fantasia».È questo il pubblico di Lucca?«Si tratta di un pubblico diverso dall’associazionismo politico degli anni Settanta e Ottanta, più simile al neo tribalismo di cui parlava Michel Maffesoli, quando individuava nell’ethos comune non la vacanza ma la festa. Ossia il tempo liberato dal lavoro. Non è questo ilsogno di tutti noi umani?».Non stai mettendo troppa carne al fuoco?«Anche sognare significa mettere tanta carne al fuoco. Solo se c’è eccedenza può esserci resto».Tu parlavi di un ethos condiviso. In realtà in comune c’è soprattutto il gioco.«C’è il gioco, certo, ma c’è sotteso un sistema di valori innescati dalle mitologie contemporanee: Goldrake – che quest’anno festeggia il mezzo secolo – esprime nel personaggio di Aktarus i valori della dedizione, del coraggio, della lealtà. È il primo eroe ecologico che anticipa i temi della difesa dell’ambiente. Come Lady Oscar anticipa la fluidità di genere. Il gioco non può essere ridotto alle sole sue regole».Il gioco implica un ethos condiviso?«Su un piano diverso è quello che è accaduto con il Living Theatre, quando Judith Malina disse: “il nostro compito è stato di trasformare, attraverso l’azione, lo spettatore in partecipante”. Così il cosplaying abbatte il muro che divide gli autori dal pubblico. È questa la rivoluzione pacifica che abbiamo fatto dal 1993, quando il gioco è entrato a Lucca Comics nelle sue varie forme, affiancando il fumetto e il fantasy».Lucca Comics quando è nata?
«Nel 1966. Il prossimo anno compirà sessant’anni. È cresciuta, si è trasformata, ha assunto nuovi linguaggi».Tu come ci sei finito dentro?«La prima volta che vi ho preso parte fu con mia madreavevo sette o otto anni. Era il 1983. Mia madre nel casino della ressa mi teneva per mano. Per gli occhi di un bambino è stato come entrare in un astronave dalla quale non sono più sceso. Dieci anni dopo ho cominciato a fare il volontariato. Partecipavo ai tornei di guerra diBlue Max. Poi nel 2000 sono diventato responsabile di Lucca Games».Com’eri visto in famiglia?«Beh, volevano che studiassi. Mia madre era infermiera. Mio padre tecnico in un laboratorio di microbiologia. Avevo qualche inclinazione per le discipline scientifiche ma finii con l’iscrivermi a Lettere. Ho fatto l’università a Pisa. Preferivo le storie fantastiche alla logica ferrea. Trovai in Francesco Orlando un punto di riferimento. Lui parlava di Freud e di letteratura. Era un siciliano coltissimo, legato a Tomasi di Lampedusa. Era nato nelle atmosfere delGattopardo, io con Lo Hobbit. Gli dissi che il passaggio dello Hobbit da fumetto a videogioco era la cosa più eccitante che mi fosse capitata».Leggevi solo fumetti e storie fantasy?«No, ho letto di tutto. Ho amato Fontamara di Ignazio Silone ma anche Blankets di Craig Thompson. Se un romanzo è bello non importa a quale genere appartenga. Non importa se parla di cafoni o di adolescenti, se sia novel o graphic novel. Conta il grado di coinvolgimento e di emozione che porta con sé. Ora che mi avvicino ai cinquant’anni mi pare di non aver perso quello slancio».Com’eri da ragazzo?«Sono sempre stato estroverso e curioso. Però non ero bravo o non mi sentivo tale. Quello bravo era sempre l’altro».Ti ha pesato?«All’inizio forse sì, ma poi ho capito che il “game” dava un senso al mio lavoro. Come dice un personaggio di Squid Game: è meglio giocare che guardare».Ora è uscita la seconda stagione della serie coreana. Il gioco in “Squid Game” è pensato secondo logiche darwiniane. Gioco per la sopravvivenza. Il contrario di quello che accade a Lucca.«Il gioco che ha a cuore la serie ideata da Hwang Dong-hyuk è quello di un mondo distopico dove si lotta per la sopravvivenza. Non è molto distante dalla rappresentazione delle forme estreme cui sta arrivando il capitalismo».“Squid Game” è la punta avanzata della cultura coreana con cinema, canzoni, videogiochi ha conquistato il globo. Come è stato possibile?«È sorprendente come una cultura pop si sia imposta a livello globale, scalzando perfino il Giappone. E non solo culture dal basso, visto il cinema raffinatissimo e l’ultimo premio Nobel per la letteratura dato ad Han Kang. L’Occidente ha sempre vissuto di prestiti culturali (spesso li ha depredati), oggi però non può dire che sono i suoi».Effetto della globalizzazione?«È già accaduto con la finanza e con le merci. Ora accade con la cultura. Vince chi è più rapido, chi ha saputo declinare meglio il passaggio dalla cultura industriale a postindustriale. In fondo la mia generazione, quella degli anni Ottanta, è predisposta per assumersi la responsabilità di questo passaggio».Ossia?«Ci fu un tempo in cui pochi producevano cultura per molti. La scuola di Francoforte, da noi Umberto Eco, studiarono il fenomeno della cultura di massa. Oggi con l’ingresso del virtuale le strategie culturali sono diventate orizzontali, reticolari, neo tribali».Neo tribali?«Sì. Comunità che si formano per non essere solo individui dispersi. È un fenomeno che attraversa i gruppi della rete, di Whatsapp, dei giochi di ruolo, delle scritture collettive. Si tratta di un sistema culturale nuovo, interattivo e ludico di cui ancora non vediamo l’intera mappa, ma c’è».È questo il futuro?«Non abbiamo facoltà di leggerlo. Ricordo che ascoltavo una canzone degli Iron Maiden che parlava di un veggente che metteva in guardia contro i pericoli della follia. Era la tentazione per noi ragazzi di osare. Era la fine degli anni Ottanta e il mondo stava radicalmente cambiando»