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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

Elogio del reggae

«Won’t you help to sing/ These songs of freedom?/ ’Cause all I ever have/ Redemption songs/ Emancipate yourselves from mental slavery/ None but ourselves can free our minds»(«Mi aiuterete a cantare/ Questi canti di libertà?/ Perché tutto quel che ho sempre avuto/ Sono dei canti di redenzione/ Emancipatevi dalla schiavitù mentale/ Solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente»), cantava Bob Marley.E la magia di quelle parole risuonava e risuona ovunque: dall’Inghilterra di Joe Strummer dei Clash, che di Redemption Song ha fatto l’unica versione in grado di eguagliare l’originale in nome della sacra alleanza tra punk e reggae (Marley cantava Punky Reggae Party), a Manu Chao, che l’ha portata in giro per il mondo, con la sua Mr. Bobby.Alborosie è un pezzo di Italia in Giamaica dove è una superstar del roots reggae. Il suo vero nome è Alberto D’Ascola ma ormai è naturalizzato giamaicano, parla perfettamente il patois e i suoi dread sono così lunghi che quasi toccano terra: non a caso, in forma di rispetto, oggi lo chiamano anche Puppa Albo. «Significa papà – spiega – lo usano per chi ha una lunga esperienza in qualcosa, in questo caso nella musica». Vive tra Kingston e Port Antonio, dove lavora anche come produttore presso i famosi GeeJam Studios, e ha collaborato con decine e decine tra artisti tra cui i Wailers, la band che accompagnava Bob Marley, e con Ki-Mani Marley, il decimo figlio di Bob. Ma gli inizi non sono stati facili.Come è nato il tuo amore per la Giamaica?«La prima volta che sono venuto qui non mi è piaciuta, anzi l’ho odiata. Alcuni non rispettavano i rasta italiani: mi chiamavano “Borosie”, in segno di disprezzo, per il colore rossiccio dei miei dread. Per questo ho poi scelto di chiamarmi così: “Albo” sta per Alberto, il mio nome, e “Borosie”, in segno di sfida, per trasformare una presunta debolezza una forza».È stata la musica a farti restare?«No, io non sono venuto qui per diventare un cantante. Sono venuto in Giamaica per la Giamaica. E la Giamaica aveva anche la musica. Che mi piaceva. C’era e c’è questo legame tra me e il luogo che funziona tutt’oggi. Il giorno prima di andarmene quella prima volta, sono salito sulla terrazza di un hotel. C’ero solo io. Guardavo l’orizzonte, il sole stava tramontando. Sono rimasto lì per molto tempo. Il giorno dopo, a bordo dell’aereo, ho cominciato a piangere. Ho capito che ero innamorato. Il mio spirito aveva deciso di connettersi con il luogo. E da lì è cambiato tutto. Mi sono reso conto che quello era il mio destino».Com’è la situazione lì oggi?«Stiamo combattendo i tempi oscuri e continuiamo a fare musica nonostante sia un mondo diverso da quello che conoscevamo. La situazione in Giamaica riflette quella globale, che è molto triste. C’è confusione, guerre causate dal vuoto spirituale, creato anche dai social media e dai computer che sovrastano la musica e l’arte vera».Parli al plurale?«Perché nel linguaggio rasta si dice “I and I”, ovvero “Io e Io”, che significa “Io e Dio”, perché ognuno di noi è Dio.Questa attitudine al plurale mi è rimasta in italiano».Chi è al governo ora in Giamaica?«Il Labour Party è ormai al potere da quattro anni e la Giamaica è abbastanza tranquilla. Ci sono delle gang ma io giro per il mondo e trovo molto più pericolose Chicago o Detroit. Ci sono stati dei momenti storici dove c’era più tensione ma il disordine politico oggi non c’è più. Siamo nel 2025, ci sono i social media, i ragazzi ora vogliono i soldi, vogliono divertirsi, vogliono vivere la vita».Questo è bello, però la religione rasta è contro cose come la ricerca del denaro; Marley lo diceva sempre.«La spiritualità c’è ancora. Qui oltre ai rasta ci sono 1500 chiese, tra cattoliche protestanti. Certo, ormai le nuove generazioni stanno crescendo senza Dio. Il mondo di oggi è diverso da quello in cui non c’erano i telefoni, non c’era Instagram, non c’era il “touch” e quindi eravamo alla ricerca di contatto: contatto umano, contatto spirituale».Ma i rasta esistono ancora?«Sì, i più anziani continuano la linea ortodossa, i più giovani portano i dread ma seguono meno. Io sono rasta e seguo i miei maestri ma, come dicono loro stessi, dobbiamo accogliere tutto con un abbraccio perché l’evoluzione naturale del mondo non va fermata».Il reggae ormai non è l’unica musica in Giamaica: tu sei una star del roots, il reggae delle “radici”, che è poi quello di Bob Marley ma ci sono anche il rap, la trap...«Non facciamo un genere musicale mainstream, ormai non è “carriera”, chiamiamola così, ma un viaggio personale. Veniamo rifiutati dall’industria discografica perché il mondo è tutto confezionato, prefabbricato. Se non fai questo, sei fuori: è il sistema di Babilonia. Sarà difficile ricevere un Grammy per esempio, perché quella è Babilonia. Io seguo molto la dottrina dell’imperatore Selassié, il re di Etiopia, King of Kings: lui ci ha insegnato che il materialismo deve andare di pari passo con la spiritualità. Se la spiritualità è sottomessa al materialismo, si crea uno sbilanciamento spirituale».Ed è per questo che invece noi celebriamo come uomo del 2025 Bob Marley. Gli dedichiamo una copertina proprio auspicando che in un mondo come questo il suo messaggio si faccia sentire più forte e le cose vadano in un’altra maniera. Per te è rimasto qualcosa di lui?«Assolutamente sì. La Giamaica è verde, giallo, rosso e rasta: c’è una tradizione, una cultura. Qui Bob ha lasciato un segno indelebile e trovo una cosa ridicola che non l’abbiano fatto ancora eroe nazionale. Non chiedermi perché: non lo so. Mi sembra strano. Forse perché nella dottrina rasta c’è la marijuana. Forse c’è di mezzo la Gran Bretagna. Qui ci sono ancora forti legami con gli inglesi. Però Bob Marley c’è. Io per questioni di età non l’ho incontrato, ma di lui conosco vita morte e miracoli perché ho lavorato con i Wailers. Molti sono morti, purtroppo».È morto anche il mitico bassista Aston “Family Man” Barrett. Quanti figli aveva?«Ne ha avuti 55. Ma non si chiamava così perché aveva tanti figli ma perché si occupava di loro: li ha mandati tutti a scuola. Io ne conosco una ventina e sono tutte persone che hanno studiato e fanno la loro carriera».E il figlio di Bob, Ki-Mani?«È veramente un ragazzo d’oro, il più cool di tutti: è arrivato quasi da ultimo ma è oggi forse il più famoso dopo Damian, Stephen e Ziggy».Tornando a Bob Marley, mi sono sempre chiesto: il calcio è davvero una cosa così amata in Giamaica?«No (ride),gli sport più popolari sono quelli “track andfield” e quindi la corsa, come insegna Bolt: tutta roba da Olimpiadi. Il calcio viene in secondo piano tranne che per i reggae boys e le reggae girls, perché in realtà il pallone era esclusivamente una passione di Bob e quindi lui, in maniera molto politicamente corretta (ride),obbligava tutti a giocare a calcio. E non potevi scartarlo. Cioè potevi farlo ma, diciamo, con cura... (ride)».Si dice che lui si sia reso conto di avere un cancro tardi perché il primo segno era una ferita a un piede che credeva di essersi fatto giocando a calcio. Ma poi questa ferita non guariva.«Non so cosa pensare. C’è chi dice che lui non abbia voluto curarsi, ma la trovo una storia inverosimile. Sta di fatto che poi Marley è deceduto per un tumore al cervello che dicevano fosse partito da un melanoma: questa è la versione ufficiale».Ce n’è un’altra?«Sì, ce ne sono diverse, ma preferisco attenermi a quella (forse Alborosie fa riferimento ad alcune teorie secondo cui la Cia era dietro il primo attentato a Bob a cui scampò miracolosamente; sempre la Cia avrebbe poi contaminato un paio di scarpe di Marley con agenti radioattivi, causa del melanoma, ndr).Hai conosciuto i vari Wailers: che uomo era Marley al di là dell’agiografia?«Bob Marley è un uomo diverso da quello che abbiamo visto nei film. Io ero molto amico di Tyrone Downie, il tastierista dei Wailers. Lavoravamo insieme in studio ed è venuto anche in tour con me, era un po’ il mio papà. Purtroppo è morto un paio di anni fa. Bob Marley era un ragazzo nato e cresciuto nella campagna dove si è sempre distinto per essere una persona diversa, molto spirituale. Non voglio idolatrarlo ma aveva un’anima di sicuro piùprofonda del normale, per cui si è delineata subito questa sua propensione a essere un messaggero della parola di Dio. Un essere che vibrava a una frequenza superiore, unnatural mystic, e quindi un uomo la cui missione era diffondere la parola di Jah (“Dio”) nel mondo. “Com’era Bob?”, mi chiedi. Lo chiamavano Tuff Gong, un “duro” come Leonard “The Gong” Howell, fondatore del movimento rasta; lo chiamavano anche Skippa, il capitano. Perché lui era un leader. Ma si occupava anche tanto della gente. Aveva molte persone intorno, alcune buone, altre meno. Perché alla fine ti devi proteggere. Non era un uomo che rideva molto. Era molto serio».E Rita Marley?«È la donna che è stata vicina a Bob, che gli ha dato uno, due, tre figli e altri tre che lui ha comunque riconosciuto. È la madre, la matriarca, è stata la donna che gli è stata accanto dall’inizio, da quando stavano in campagna e poi in Trenchtown, il ghetto tante volte cantato. E infine, quando Bob è diventato famoso, lei c’era ancora, nonostante lui avesse avuto figli da altre. C’è sempre stata e ha accompagnato il suo cammino».Qual è alla fine il messaggio di Bob?«I rasta sono, siamo, contro il sistema di Babilonia. Quindi il messaggio di Bob è spirituale e anche di denuncia sociale. Il reggae viene dal ghetto e, grazie a lui, è stato portato nel ghetto mediatico di tutto il mondo, dal Brasile all’Argentina, dall’Europa all’Africa, fino all’Asia. Come il blues, il gospel, l’hip hop, la musica è sempre nata in luoghi disagiati, dove la gente ha bisogno di esprimersi, di tirare fuori frustrazioni. Quindi il reggae è, e sarà sempre, la musica in cui si riconoscono gli oppressi e i ribelli».