Robinson, 5 gennaio 2025
Quando giocai a calcio con Bob Marley
Diciamo subito che il mio incontro con Bob Marley non poteva cominciare peggio. Venendo da Negril a Kingston per intervistarlo, nel marzo del 1980, immaginavo già di sentirlo sul Mento, il movimento musicale afro- europeo jamaicano, anni 40- 50, precursore dello Ska e del Rocksteady, le fondamenta del Reggae. E il Calypso? E Harry Belafonte? Per me Kingston eraJamaica Farewell, con quei suoi versi nostalgici fino alle lacrime :«I had to leave my little girl in Kingston Town». E poi i Wailers e la musica e i Rasta, e la sua casa e l’attentato del dicembre del 1976, quando, il giorno prima del suo “Smile Jamaica Concert” per pacificare un’isola divisa, sette uomini armati entrano in casa e sparano a vista: Bob è colpito al torace e a un braccio, la moglie Rita alla testa, altri due amici feriti. Si salvano tutti. Un miracolo, il mondo è pietrificato davanti al cantante eroe.Volevo capire l’artista, il Rastaman pacifista, perennemente high, il predicatore dell’autonomia panafricana. Di più: ci saremmo visti nel suo studio, dove aveva composto e registrato No Woman No Cry, Get Up Stand Up, Redemption Song. Ed eccomi finalmente davanti a lui. Seduto con Bob Marley in persona. Si sta fumando la canna più grande che io abbia mai visto, mi guarda di sbieco ed è subito aggressivo, irritato: «Tu sei italiano, voi italiani siete pessima gente. Avete attaccato il Negus. Avete ucciso per conquistare». Il Negus, Hailee Selassie, l’imperatore d’Etiopia era la divinità centrale per i fedeli rastafari come Marley. Si tratta di una religione mistica, cristianoprotestante nata in Giamaica negli anni Trenta e dominata da una coscienza panafricana. L’attacco continua: «Siete cattolici: la Chiesa, il Vaticano, il Papa erano complici, non accettano l’origine divina del Negus». Al suo fianco due suoi uomini annuivano minacciosi a ogni sua parola. Che avesse accettato di vedermi solo per prendersela con un italiano? Totalmente impreparato, non vedevo una via d’uscita.L’idea dell’intervista mi era venuta ascoltando Survival, il suo ultimo lp dell’autunno del 1979. Bob tornava alla militanza e al suo forte messaggio politico panafricano. La sentivo e risentivo a Negril, che nel 1980 era l’unico posto “giusto” per andare in vacanza ai Caraibi da New York: costa sud ovest della Giamaica, spiagge immense e deserte, niente turismo tradizionale, che si fermava agli alberghi di Montego Bay o alla gated community di Round Hill. E a Negril c’era un unico posto dove trovarsi in serata, il Rick’s Café, grande terrazza sul Mar dei Caraibi che si apriva all’infinito. Da Rick’s Café c’era la gangia, c’erano i tramonti, leggendari, il miglior Planter’s Punch con doppio rum al mondo e c’erano i ragazzi locali che si tuffavano dagli scogli altissimi. Non per gli «americani che espatriano» come li definivano già Dalla e De Gregori in Banana Republic, ma per questa varia umanita di hippy invecchiati, intellettuali, artisti, fricchettoni in genere, alternativi, avventurieri. Al Rick’s Café c’era la musica eSurvival dominava a ripetizione traMy Sharona degli Knack, Bad Girls di Gloria Gaynor, top del 1979, Hotel California degli Eagles, uscita tre anni prima e soprattutto, I will Survive di Donna Summer, in tema, uscita poco prima di Survival di Marley. Decido chedevo provare a intervistarlo. Alla fine trovo un numero dello studio, chiamo e dopo un giorno una voce femminile richiama il Rick’s Café, l’unico col telefono, e mi conferma l’appuntamento. Lo dico subito alla mia amica Debora e la invito a venire con me in giornata, come assistente fotografa. Il problema è il trasporto. Muoversi in Giamaica nel 1980 era complicato, solo ad andare ci volevano quattro ore e mezza per 200 chilometri. Tommy, un pilota di contrabbando, si offre come autista.Lo devo pagare 300 dollari, molto di più delle lire che mi avrebbe pagato Stampa Sera, per cui allora scrivevo di musica. Tommy sniffa in continuazione da una scatoletta di metallo sul cruscotto dell’auto e guida come un matto su una strada pericolosissima lungo la costa, sfrecciando tra la giungla e piccole parish, e a un pelo dai camion che tagliano la strada, ma riusciamo a sopravvivere. Per trovarmi qui, in studio con Bob che mi urla addosso, con la sua corona di capelli agitata, camicia aperta, una catenina al collo, iconico come potrebbe essere sulla copertina di un suo disco. Cerco di puntare su una comunanza africana, gli dico che sono nato a Tripoli. Peggio: «Altra conquista africana italiana. Sei figlio di coloni? Sei fascista?» Nego. Mi appiglio alle mie origini ebraiche. Su questo si ferma un attimo. Poi dice, cambiando tono: «Survivors, sopravvissuti, gli ebrei sono dei sopravvissuti. Il Negus aveva un buon rapporto con la religione ebraica. Discendeva direttamente da Re Salomone». A quel punto, il colpo di scena: «Ho conosciuto il Negus!». È la voce di Debora. La reazione a questa uscita è difficile da descrivere. La sala è in silenzio. Bob guarda Debora dritto negli occhi, sguardo inquisitore, incerto. Gli altri non annuiscono più. Poi, a raffica Marley: come? Perché? Dove? E Debora racconta di essere andata a Palazzo con suo zio che aveva affari in Etiopia e conosceva il Negus che lo aveva invitato. Marley vuole sapere tutto, ogni minimo dettaglio. Com’era? Cosa diceva? Com’era vestito? Debora racconta d’un fiato. Un uomo non alto, ma di grande autorevolezza. Incuteva timore e rispetto. Era in divisa militare, elegante, distinto, dignitoso, austero e severo, ma allo stesso tempo bonario, affascinante e misterioso. Bob ha dimenticato l’attacco italiano al Negus. La canna aiuta. Ha gli occhi lucidi. Mi ringrazia per questa visita che, dice, era evidentemente scritta nel destino. Ringrazia Debora. Gli chiedo del suo rapporto col Negus e della sua storia.E si apre quella conversazione che avevo immaginato prima di arrivare. Parte dalla sua infanzia, dalla Giamaica degli anni Quaranta, dalle difficoltà di Nine Mile, il villaggio dove era nato, nella parish di St. Anne, dove la sua musica si è formata: «Ho 35 anni ma faccio musica da 25, ho una carriera lunga alle spalle». Ricorda i primi tentativi con Peter Tosh e Bunny Wailer, amici d’infanzia. Poi Bunny diventò fratellastro perché suo padre si era messo con la madre di Bob. La band di Bunny diventa l’orchestra di Marley, ricordate Bob Marley and the Wailers? Parliamo di musica, del Calypso, del Reggae e di Survivaluscito appena prima che la Rhodesia diventasse Zimbabwe. Era dedicato alla causa africana: «Some people will not wait for long... Nanananah, We are the survivors, the black survivors…» recita il ritornello.Mi dice che le nazioni africane risorgeranno. E mi racconta della copertina del disco con una trentina di bandiere africane. Poi si ferma. «Giochi a calcio?» mi chiede. Certo, rispondo, tutti gli italiani giocano al calcio. «Ora devo andare alla partita in cortile, qui sotto, coi miei compagni. Hai tempo? Vuoi giocare con noi?» Se ho tempo? Per giocare a calcio con Bob Marley nel suo cortile? Certo, grazie! Mi dice: «Hai bisogno di scarpette, con quelle non puoi giocare». E chiede a uno dei suoi di cercare un paio di scarpe da calcio. Scendiamo. Siamo in cortile. Ci sono gli amici, tutti rastaman, tutti giovani come lui, tutti coi capelli intrecciati. Saremo una quindicina. Il cortile mi ricorda quello dell’oratorio Don Bosco a Torino in Via Piazzi, in Crocetta. Stesso asfalto, pericoloso per le cadute. Siamo agli antipodi, ma quel mondo del calcio improvvisato in cortile è lo stesso. Non ci sono divise. Si gioca così come si è. Si fanno le squadre. Bim, bum, bam: in due scelgono. Io sono nella squadra contro Bob. Si gioca nell’aria tiepida delle cinque del pomeriggio del marzo caraibico.Partita fantastica. Lui è duro negli scontri diretti, ma mai falloso. Gioca benissimo. È atletico. Ha la forza di un uomo di 35 anni in ottima forma. Debora fa delle foto ( e meno male, altrimenti non ci avrebbe creduto nessuno, bellissime, talento preso dal padre Adolfo Tomeucci, grande fotografo italiano). Finiamo. Non ricordo il risultato, non era importante. Bob mi stringe la mano: «Giochi bene per essere un italiano». Ci abbracciamo. E aggiunge: «Ho sentito la vicinanza del Negus nel nostro incontro. Anche lui è un sopravvissuto». Non so se quell’album Survival l’avesse concepito anche come espressione della sua battaglia personale contro il cancro. Gli avevano trovato una rara forma di melanoma sotto l’unghia dell’alluce. Avevano suggerito l’amputazione del dito, ma avrebbe giocato peggio al pallone e rifiutò. Fece un’operazione parziale. Il melanoma era piccolissimo, ma non gli diede scampo. Andò in metastasi. Bob se ne andò poco più di un anno dopo, a 36 anni, giovanissimo e immortale. Come il Negus.