Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2025  gennaio 05 Domenica calendario

Mi ricordo, Bob Marley

Talvolta i dread svolazzanti di un rasta che danza prendono la forma di un ragno, un grande ragno che appare e scompare nell’aria come un fantasma della giungla. Per il popolo dei rasta il ragno è Anancy, uno spirito astuto, piccolo e potente, capace di trasformarsi a piacimento e perfino di farsi beffe degli dei, simbolo della capacità di sopravvivenza degli oppressi. Per molti di loro l’incarnazione di Anancy era Bob Marley, il messia nato il 6 febbraio di ottant’anni fa, capace di portare il verbo nel cuore di Babilonia cantando e danzando come uno sciamano invincibile. Quando riuscii a vederli dal vivo quei dread svolazzanti, il 27 giugno del 1980 allo stadio di San Siro, fui rapito come gli altri centomila presenti da una improvvisa certezza. Davanti a noi non c’era solo un cantante, seppur incredibilmente bravo, c’era un incantatore, un uomo che lavorava in missione per conto del suo Dio, Jah, ed era capace di scaraventarti in un istante in un altro mondo, uno di quei mondi che la nostra generazione bramava visitare. «Get up, Stand up» gridava e lo stadio saltava all’unisono, centomila cuori uniti da quel ritmo in levare che aveva stregato il mondo.Di musici profeti allora ce n’erano tanti, ma stavano cominciando a morire. Solo pochi mesi dopo un insignificante ometto di nome Mark Chapman avrebbe tolto di mezzo John Lennon, lasciando ilmondo ammutolito di orrore. Marley ci pensò da solo. Oltre al suo smisurato talento, portava addosso una fede incrollabile, e la sua bibbia etiopica prescriveva che il corpo non poteva essere in alcun modo mutilato, i capelli non dovevano essere tagliati. Rifiutò che gli fosse amputato un dito del piede per fermare la progressione del tumore, ed evitò la chemioterapia che gli avrebbe fatto cadere i dreadlock, i riccioli da “spavento”, così era nato il termine che definiva le capigliature degli adepti. Non si fece curare, fino a morirne, a 36 anni, lui che sembrava immortale e così ci sembrò a San Siro quando a sorpresa dopo aver esaltato lo stadio con la cadenza ipnotica diJamming e Exodus se ne uscì da solo con la chitarra in braccio, come un qualsiasi folksinger e intonò Redemption Song. «Potete aiutarmi a cantare un’altra canzone di libertà?» ci diceva con la sua meravigliosa voce, «perché tutto quello che ho è una canzone di redenzione». Ma era molto, molto di più, erano le parole di un giovane messia destinato a morire presto, ma nessuno in quel momento sospettò che quello fosse uno dei suoi ultimi concerti. La notte scrissi il pezzo per Repubblica, come se avessi addosso una febbre felice e salvifica.Anni dopo andai in pellegrinaggio in Giamaica. E solo lì compresi fino in fondo perché nella sua storia e nella sua biografia fosse così difficile distinguere i fatti dal mito. Nella sua isola tutto era avvolto dalla leggenda, a partire dalla casa in cui era nato, nel villaggio di Nine Miles, arroccato nelle colline dell’interno, tra alberi di mango, palmeti, coltivazioni digangia, l’erba sacra dei rastafari, e misere baracche. Lì era nato e lì è stato sepolto, come un antico re, con le sue cose preziose, con una bibbia aperta sul salmo 23, un pallone, la sua Gibson Les Paul, una piantina di erba e, almeno così sembrerebbe, l’anello che gli fu donato dal principe etiope Asfaw Wossen, figlio di Haile Selassie, nonché principe ereditario del trono, anche se sulla sorte di questo anello che, secondo la leggenda, discendeva direttamente da re Salomone, non vi è accordo.Intorno al mausoleo si vendono souvenir e librini con le citazioni di Marley, come fossero le parole di un santo, e del resto per i custodi del tempio è un santo, sopravvissuto a ogni male, a ogni spirito cattivo che ha cercato di eliminarlo come quando entrarono a pistole spianate nella sua casa di Kingston. Erano in sette e spararono a tutti i presenti, a sua moglie Rita, al manager Don Taylor, che involontariamente fece da scudo a Bob che comunque fu raggiunto da un proiettile che gli sfiorò il cuore. Sopravvissero tutti, ma non i sette aggressori che si dettero alla fuga: uno dopo l’altro nei giorni seguenti, furono trovati morti, in diversi luoghi dell’isola. Due giorni dopo, tanto per accrescere la fama di santità, si presentò comunque sul palco di “Smile Jamaica” il concerto voluto dal Pnp, il partito popolare di Michael Manley, accolto da un tripudio di folla.Nella casa di Kingston ci sono ancora i fori dei proiettili, a ricordare il “miracolo”, ma c’è anche una stanza dove sono stati affissi tutti gli articoli usciti nel mondo e con mia enorme sorpresa, scoprii che c’era anche la pagina di Repubblica, quella del racconto del concerto di San Siro, col mio pezzo e quello di Natalia Aspesi, che era accanto a me sugli spalti del Meazza.Come ogni messia che si rispetti Marley era nato in una baracca, figlio di una nera giamaicana e di un bianco inglese che decise di sposare la ragazza appena diciottenne anche se, diseredato dalla famiglia, sparì dalla circolazione lasciando Cedella a crescere da sola il bimbo, Robert Nesta Marley, nella loro zona di campagna, finché si trasferì a Kingston, nel quartiere di Trenchtown, la degradata periferia urbana dove nacque la sovversiva energia del reggae.Dal primo all’ultimo dei suoi giorni, dal primo all’ultimo dei suoi versi, Marley realizzò una sorta di miracolo linguistico. Riusciva a parlare allo stesso tempo ai suoi fedelissimi, e su un altro piano al mondo intero, gli stessi versi avevano un livello comprensibile solo a chi condivideva i codici rasta e un altro valido per tutti, era locale e allo stesso tempo globale, e grazie a questo riuscì a diventare la prima vera star di una ex colonia a imporsi sulla scena mondiale. Il big bang ha una data precisa: il 17 luglio del 1975. Bob Marley and the Wailers erano attesi al Lyceum Ballroom di Londra. I biglietti andarono rapidamente esauriti perché oltre ai giovani inglesi, incuriositi dalla nuova musica giamaicana, dallo ska e dal rocksteady che avevano già seminato in terra britannica, c’era la folta comunità giamaicana. Arrivò talmente tanta gente che scoppiarono tafferugli e disordini. Ma la registrazione di quel concerto diventò un disco, Live at the Lyceum, osannato come uno dei migliori live di tutti i tempi.Il verbo si diffuse rapidamente, la musica inglese subì una clamorosa fascinazione, Eric Clapton pubblicò I shot the sheriff e da lì un diluvio, non ci fu quasi gruppo totalmente esente da questo contagio, dai Police che furono gli ambasciatori ufficiali della nuova musica, ai Clash. Ma il dio del reggae rimaneva Marley. Live at the Lyceum conteneva tra le altre Get up stand up, Lively up yourself e soprattutto la versione “definitiva” diNo woman, No cry, un capolavoro di dolente dolcezza, di consolazione, di protezione, un uomo che parla alla sua compagna, le dice: in questo immenso futuro riusciremo a dimenticare il passato, e lo fa utilizzando il gergo e il lessico dei giamaicani. Così come in Redemption song, il suo ultimo pezzo, il suo testamento, quando diceva: «The pirates yes they robe I», intraducibile perché alla lettera sarebbe: «I pirati hanno rubato io». I rasta invece del “me” usano sempre “I”, io, perché l’unità dell’io non è declinabile, non è divisibile, strano ma bellissimo, come tutto il suono che ruotava intorno a Marley. Danzando ci ha insegnato che il ritmo poteva essere fonte di vita e di rivoluzione.