La Lettura, 5 gennaio 2025
l sogno dei curdi è sempre più lontano
Mai stati così importanti come dieci anni fa. Oggi però sono tornati nella condizione di minoranza a rischio di massacri e persecuzioni, come spesso è accaduto nella loro storia. Sono i curdi siriani, che nel 2014-2015 vennero innalzati al ruolo di alleati indispensabili del fronte a guida americana che combatteva lo Stato Islamico (Isis), allora in forte espansione tra Iraq e Siria, ma che la defenestrazione della dittatura di Bashar al-Assad l’8 dicembre scorso per mano delle milizie islamiche di Hayat Tahir al-Sham (Hts), legate alla Turchia, ha di nuovo reso marginali e addirittura ingombranti.
I motivi sono evidenti. Recep Tayyp Erdogan – il settantenne signore di Ankara – li vede come il fumo negli occhi. Per lui sono tutti «terroristi», alleati del Pkk, il movimento indipendentista curdo in Turchia. E dunque vanno distrutti, le loro potenzialità militari cancellate una volta per tutte. L’attuale amministrazione americana ha cercato di difenderli: Joe Biden mantiene ancora quasi 2.500 soldati entro i confini della loro regione autonoma di Rojawa, nel nordest siriano. Ma Donald Tramp, nella sua foga isolazionista dell’America First, ha detto che non intende spendere un altro dollaro in Siria. Va ricordato che già durante il primo mandato, nel 2017, Trump aveva provato a ritirare i soldati americani, salvo ricredersi poco prima che l’esercito di Bashar, aiutato dai russi, facesse irruzione a Rojawa.
In ogni caso, l’Europa, che pure esalta la laicità socialista di Rojawa, celebra le loro donne soldato ed è grata ai curdi per i sacrifici in prima linea contro l’Isis, alla prova dei fatti non farà nulla per difenderli. Oggi gli europei stanno già correndo in ordine sparso a salutare il «sultano» Erdogan, vero vincitore in Siria contro il fronte sciita guidato dall’Iran in decadenza, umiliato ovunque da Israele, e non hanno alcuna intenzione di sprecare le loro cartucce per una causa del passato, superata dal rapido scorrere degli eventi.
Questa la cruda realtà: c’è un nuovo Medio Oriente e i curdi non ne sono più al centro. Che fare dunque di loro? Nel gennaio 2015, dieci anni fa, quando grazie all’aiuto militare americano erano riusciti a fermare oltre 30 mila combattenti dell’Isis alle porte di Kobane, segnando a tutti gli effetti l’inizio della fine del sogno fanatico del Califfato di Abu Bakr Al Baghdadi, tra i loro ranghi era cresciuta addirittura la speranza di creare uno Stato curdo indipendente. Alla luce degli eventi delle ultime ore sembra trascorsa un’era geologica. Ma accadeva agli esordi della primavera araba siriana. La dittatura a Damasco aveva perso il controllo di larga parte del territorio. Già nel 2012 il Pyd, Partito democratico unito curdo, era riuscito a creare una forma quasi statuale di autonomia indipendente nel nordest del Paese, dal confine con l’Iraq alle regioni a oriente dell’Eufrate lungo la frontiera con la Turchia. L’avevano chiamata Rojawa, Kurdistan occidentale, ed era formata da tre cantoni separati: Afrin, Kobane e Cizre. Gli uffici centrali erano stati posti attorno alla città di Qamishli, dove i soldati di Assad avevano comunque mantenuto il controllo dell’aeroporto regionale. Qui erano confluite le unità della guerriglia curda in Turchia ispirate dal loro leader storico: Abdullah Ocalan, che, sia pure detenuto in una prigione turca dalla fine degli anni Novanta (dopo un tentativo di richiesta di asilo politico in Italia al tempo del governo D’Alema, 1998), resta la figura ispiratrice, il capo carismatico dell’irredentismo curdo.
La reazione turca non si fece attendere. Sfruttando le tradizionali divisioni fra tribù intercurde – distribuite nei loro territori di residenza tra Siria settentrionale, Iraq del nord, Turchia orientale e Iran occidentale – Erdogan aveva fatto del suo meglio per creare animosità contro Rojawa. In particolare, il leader turco aveva giocato sulla rivalità storica tra Erbil e Sulymanie (nell’enclave autonoma del nord Iraq) per impedire che i curdi iracheni aiutassero i cugini siriani. L’operazione di Ankara fu semplice ed efficace: se aprite i vostri confini ai curdi siriani e alimentate la loro resistenza, noi vi tagliamo i canali commerciali e voi sarete costretti a dipendere dal governo centrale di Bagdad. La forza dell’economia turca e il ricatto delle sanzioni furono sufficienti a reprimere lo slancio di solidarietà irredentista intercurda.
Una svolta inaspettata giunse da un’altra parte. La crescita militare dell’Isis nella primavera-estate del 2014 ebbe la conseguenza di aiutare la causa curda. Gli americani e le forze irachene si trovarono ad avere disperato bisogno di manovalanza militare per contenere i tagliagole del Califfato. Da Raqqa le milizie di Al Baghadi conquistarono Mosul (la seconda città dell’Iraq cadde quasi senza combattere lasciando allo sbando 100 mila soldati), addirittura arrivarono a minacciare Bagdad, in Siria mirarono ad Aleppo. I 50 mila combattenti curdi (tra loro circa 20 mila donne) si rivelarono alleati preziosi: determinati, coraggiosi, bene addestrati. Gli americani mettevano intelligence, droni, caccia, armi e finanziamenti, ma a combattere erano i curdi.
In pochi mesi persero circa 15 mila soldati. Nella Siria controllata da una parte dalla dittatura di Assad e dall’altra dalle milizie jihadiste e dall’Isis, Rojawa divenne ben presto un’isola laica aperta anche alla stampa internazionale. Non mancarono certo le ombre: la popolazione locale contestava il pugno di ferro esercitato dall’esecutivo centrale curdo, il lungo servizio di leva obbligatorio spinse parecchi giovani a scappare nei quartieri curdi di Aleppo e Damasco. Anche l’uguaglianza tra uomini e donne aveva aspetti ambigui: valeva tra le unità combattenti, ma molto meno nell’intimo di famiglie ancora profondamente ancorate alla tradizionale società patriarcale. Furono comunque i curdi a sconfiggere l’Isis nelle sue regioni storiche: le ultime battaglie lungo il corso dell’Eufrate presso il confine iracheno li videro uccidere migliaia di jihadisti e imprigionare oltre 60 mila miliziani (combattenti e loro famiglie). I curdi avevano sbaragliato anche le colonne internazionali jihadiste che da qui minacciavano il cuore dell’Europa.
Ma la vittoria costrinse i curdi a guardare con più realismo al loro futuro. Nel 2019 i sogni di uno Stato indipendente lasciarono il posto alla speranza di possedere una sorta di regime autonomo o confederato sotto il cappello di Damasco. «Prima di tutto siamo siriani, vogliamo negoziare la nostra autonomia politica e culturale con Bashar al-Assad», ripetevano ormai a Rojawa. La situazione è però ancora cambiata negli ultimi anni. Le forze sunnite sostenute dalla Turchia hanno preso il controllo della regione di Erbil e le unità dell’Armata nazionale siriana hanno ingaggiato battaglia con i curdi per volere diretto di Ankara. Oggi Erdogan ribadisce la necessità di disarmare i «terroristi» di Rojawa. Il 9 dicembre i filo-turchi hanno cacciato le unità curde dalla cittadina di Manbji. Gli Stati Uniti hanno poi cercato di mediare un cessate il fuoco. Ma la tregua resta instabile. Jolani parla dei curdi come «parte del nostro popolo», ma dice anche che nessuno può minacciare la Turchia dalla Siria. Se Trump, dopo il suo insediamento il 20 gennaio, dovesse ritirare i soldati americani, per i curdi la situazione diventerebbe molto difficile.