La Lettura, 5 gennaio 2025
La globalizzazione è stata solo un’illusione
L’età dell’illusione ha una data di nascita precisa: 9 novembre 1989, la caduta del Muro di Berlino. Da quelle macerie doveva generarsi un mondo nuovo: aperto, accogliente, attraversabile in lungo e in largo con inedita libertà. Un’illusione, appunto. Chi si era immaginato la rottamazione definitiva dei posti di blocco, chi aveva giudicato i confini «fossili politici» si è dovuto ricredere: ha visto andare in pezzi territori e sorgerne altri, alzarsi barriere e check point, scoppiare guerre per difendere altri limiti, altri fili spinati. Perfino l’Unione Europea, la grande utopia che nel 2004 «accolse» Polonia, Ungheria, Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Cipro e Malta, ha perso pezzi. Contemporaneamente, sono spuntate nuove frontiere, a decine. Anche marittime. Ed è arrivato il conflitto in Ucraina, è riscoppiato quello israelo-palestinese, che sta toccando una nuova fase tragica. Storia recente, ma anche attualità, minacciosa: perché la vittoria di Donald Trump potrebbe incrinare le relazioni con l’Europa su temi che riguardano il commercio, la sicurezza, gli aiuti all’Ucraina, oltre che alzare il livello di tensione sulla barriera messicana e compromettere i rapporti con la superpotenza cinese. Perché il crollo del regime di Bashar al-Assad in Siria sgretola altre certezze sul futuro del Medio Oriente. Dunque se le cose non sono andate come le si immaginava al termine del Novecento, più che le colpe si devono capire le ragioni, compresa una fondamentale: il bisogno del genere umano di sentirsi definito all’interno di uno spazio. Territoriale, comunitario, identitario.
Tre ingredienti di un sogno In questo viaggio lungo i confini che si sono moltiplicati sugli atlanti geografici di ultima generazione (completamente diversi da quelli degli anni Ottanta e Novanta), bisogna tornare indietro di oltre tre decadi. Alla fine del Novecento. «La Lettura» ha chiesto aiuto a Corrado Stefanachi, professore associato di Relazioni internazionali, Studi strategici e Geopolitiche all’Università degli Studi di Milano. Fu proprio sul crepuscolo del millennio scorso, avverte, che l’umanità iniziò a sognare un mondo senza confini. Per tre particolari ragioni. La prima e più evidente, spiega il docente, è il crollo del Muro, con il suo clamoroso impatto sulla scena internazionale. Quindi la globalizzazione, che ha reso i confini tra Paesi più penetrabili, che ha connesso le economie, le società, le tecnologie, le culture. E la Rete, che sembrava annientare le distanze, favorire la comunicazione in tempo reale, decretare la fine di ogni controllo su persone e idee.
Quei tre fenomeni epocali che dovevano rendere il pianeta una prateria sconfinata, hanno mostrato le loro falle quasi subito. Perfino nella loro fase nascente non hanno impedito il formarsi di nuove realtà territoriali. A ritmo veloce: nel 1991 nascono dalla frammentazione dell’Urss la Russia e le altre repubbliche indipendenti post sovietiche. Cechia e Slovacchia si dividono ufficialmente già il 1° gennaio 1993; il dissolvimento della Jugoslavia porta addirittura a un susseguirsi di sanguinosi conflitti. «La caduta del Muro – dice Stefanachi – è la rivincita del confine, non la sua sconfitta. La globalizzazione che doveva abolire le frontiere le ha rese invece appetibili». Il motivo è da cercare nella porosità delle barriere: poco controllo e facilità di «passaggio» agevolano gli scambi, anche quelli criminali e di matrice terroristica: «Movimenti illeciti, a qualunque livello, creano il bisogno di ristabilire i confini che una mondializzazione spinta ha reso deboli. A questo si aggiungono le conseguenze di un uso “malvagio” del cyberspazio: aumenta il senso di insicurezza perché dal web passano la propaganda, la sovversione. Da questo scenario ansiogeno nasce la richiesta di sovranità digitale». E di maggiore difesa, non solo online. Risultato: i confini diventano muri. «Come quello tra Messico e Usa. Paradossale perché si trova nel cuore della globalizzazione, in quell’area geografica in cui nel 1994 entrò in vigore il North American Free Trade Agreement (Nafta), accordo di libero scambio fra Usa, Canada e Messico, rinegoziato nel 2018».
Non siamo così liquidi «Un impero fondato sulla guerra deve conservare sé stesso con la guerra». La citazione, che non dimostra i suoi anni, è di Montesquieu. Altrettanto attuale è l’invito a fare attenzione a quando le grandi potenze si frammentano, dall’Impero Romano in avanti: resta sempre uno strascico, qualcuno rimane inevitabilmente deluso dal nuovo ordine politico e territoriale e questo scontento diventa tema di discussione, di polemica che si trascina per anni, nei casi peggiori di scontro. Gli esempi si moltiplicano, urlano l’insoddisfazione di popoli ed etnie le «guerre congelate» in Nagorno-Karabakh (in via di scongelamento), oggetto di disputa territoriale tra armeni e azeri ma ormai sostanzialmente recuperato dall’Azerbaigian; in Transnistria, con la Moldavia che ne rivendica la sovranità; in Abkhazia e Ossezia del Sud che secondo i georgiani sono parte del loro territorio sovrano mentre sono riconosciute indipendenti da Mosca (la crisi di Tbilisi è esplosa nei giorni scorsi: la presidente uscente Salomé Zourabichvili non ha riconosciuto il nuovo parlamento filorusso uscito dalle elezioni di ottobre, sostenuta dai manifestanti pro-Ue); tra i serbi e gli albanesi del Kosovo.
Tensioni e posti di blocco, il processo sembra irreversibile e non pare stupire troppo Stefanachi: «Dopo la Guerra fredda e il disgregamento dell’Urss, il confine era considerato un disvalore, aveva il sapore del nazionalismo più meschino. È bastato poco, però, perché da disvalore diventasse elemento di ordine e prevedibilità, auspicato da molti. Quindi sì, siamo liquidi come ha detto Zygmunt Bauman, chiamiamo migranti gli emigrati e gli immigrati di una volta, comunichiamo con uno smartphone e ci sentiamo cittadini del mondo, però un antropologo direbbe che per essere qualcuno dobbiamo determinarci e situarci nello spazio, che abbiamo bisogno di radicamento. Il sociologo Frank Furedi ha scritto il saggio I confini contano (Meltemi, 2021). Ci danno stabilità, dice, affrontando l’argomento da una prospettiva sociale, antropologica, economica. E ricorda i motivi per cui l’umanità deve riscoprire l’arte di tracciare frontiere». Anche se a volte i confini diventano di sangue.
Il pasticcio colonialeContestati, disputati, combattuti, rivendicati. Spostati, abbattuti e ricostruiti. Ma perché i confini suscitano tanto scontento? E se sono così problematici, perché continuare ad accanirsi a difenderli? A erigerli? A inventarli? Intanto perché nella maggior parte dei casi si tratta di frontiere «giovani», di recente formazione, che non hanno avuto tempo di stabilizzarsi. Non sono legittimate dal tempo, fondamentale quando si tratta di geopolitica. Trenta-quarant’anni sono niente rispetto alla sedimentazione secolare, a volte millenaria, di culture, religioni, stili di vita. «Basta vedere – fa notare Stefanachi – come è stata spartita l’Africa: molti Stati, dal punto di vista geografico, non sono altro che il prodotto del colonialismo inglese e francese, tracciati con una linea retta senza tenere conto delle esigenze, delle legittime richieste, delle visioni, della storia di chi in quelle terre abitava da secoli». Stessa cosa nei territori sorti in seguito al disgregamento dell’Impero Ottomano. «Prendiamo il caso della Siria e del Libano: nascono negli anni Quaranta come prodotto della politica coloniale francese ma per sessant’anni non si scambiano gli ambasciatori. Perché? Semplice: per molto tempo dopo l’indipendenza, tanti nazionalisti arabi siriani hanno pensato che Siria e Libano fossero la stessa cosa». E ora che è caduto il regime di Assad, gli scenari restano aperti sull’intera regione.
Altro esempio di confini stabiliti dai colonizzatori sono Iraq e Kuwait: «I nazionalisti iracheni non hanno mai accettato nel 1961 l’indipendenza concessa al Kuwait dalla Gran Bretagna. E tutte queste tensioni in Medio Oriente non sono indolori, ma sollevano ciclicamente ondate di panarabismo che può essere di due tipi. Laico, come quello di Nasser, o religioso: non è un caso che Isis sia nato tra Iraq e Siria. E se il fallimento più clamoroso, non solo delle politiche occidentali ma dei processi di pace, restano Israele e la Palestina, non possiamo dimenticare India e Pakistan. Nel 1947 Londra lascia l’India e in cinque settimane Cyril Radcliffe ridisegna i due Stati distribuendo all’uno e all’altro metà di Punjab e Bengala, la cosiddetta Radcliffe Line che ha lasciato cicatrici profondissime. Ancora oggi il Kashmir resta un nodo tra India e Pakistan». Entrambe le nazioni ne rivendicano la sovranità, e in questo groviglio c’entra pure la Cina: oggi la regione del Kashmir è divisa in tre aree, governate da Pakistan, India e appunto Cina, che controlla lo Xinjiang. Questione intricatissima, su cui si affastellano ragioni territoriali, culturali e religiose (induisti, musulmani), oltre alle richieste d’indipendenza delle popolazioni locali. (Capitolo linee tracciate senza senso: il confine tra Slovenia e Italia stabilito nel 1947 che tagliava in diagonale il piccolo cimitero di Merna).
Tre ingredienti di un incubo Anche alla luce degli esempi fatti finora, diventa chiaro che a generare l’insoddisfazione lungo i confini, a esacerbare gli animi dei popoli di frontiera, a suscitare appetiti e a scatenare conflitti sono tre ragioni fondamentali: economiche; strategico-militari; identitarie.
Il denaro. O benessere. Comunque lo si chiami, resta un poderoso motore politico e bellico: spostare le frontiere può essere un obiettivo per mettere le mani sulle risorse altrui, per fare propaganda, per rispondere a reali necessità di popolazioni povere, affamate. Il tema, antichissimo (la prima guerra punica nel III secolo avanti Cristo tra Roma e Cartagine scoppiò anche per il grano della Sicilia), è oggi amplificato dal riscaldamento globale, dall’innalzamento delle acque e dalla richiesta di risorse da parte dei Paesi in via di sviluppo, notoriamente energivori. Stefanachi continua nella sua ricognizione: «Il Golan ha un incredibile valore economico per Siria e Israele: il Giordano nasce lì, e Israele ha un bisogno disperato di acqua. Stessa cosa nel Kashmir conteso, attraversato dall’Indo. La crisi diplomatica in corso tra la Guyana e il Venezuela riguarda il controllo della Guayana Esequiba, specie di Eden degli idrocarburi. Neanche il Sudamerica è immune da certi conflitti».
Cercare zone di sfruttamento esclusivo. Spostare i confini per conquistare risorse. O per controllare l’estero vicino, per avere «profondità strategica» in zone cuscinetto come il Golan, «per tenere lontano la Siria di domani». La strategia militare non è da sottovalutare tra i motivi per cui un confine può diventare oggetto di contesa. «La Russia vuole a tutti i costi l’Ucraina dell’est perché vuole mantenere una distanza concreta tra sé e le potenze occidentali: nel 2008 era stato promesso a Ucraina e Georgia che sarebbero entrate nella Nato (l’allora capo di stato maggiore delle forze armate russe, Yuri Baluevskij, commentò così: “Senza dubbio alcuno, la Russia prenderà decisioni per garantire i propri interessi ai suoi confini e non si tratterà solo di misure militari ma anche di altra natura”), ma statene certi, la Russia non vorrà mai la Nato come sua vicina. Allo stesso modo la Turchia di Erdogan vuole essere presente nel Kurdistan siriano».
I confini si contestano e si difendono anche per ragioni di cuore, tutti i movimenti nazionalisti considerano sacri alcuni luoghi, il desiderio di incorporarli riemerge ciclicamente. «È il valore affettivo delle terre irredente come Trento e Trieste per l’Italia durante la Prima guerra mondiale». Come è oggi il Kosovo: «Anche se a maggioranza albanese, i serbi non vogliono rinunciarvi». Come è l’Ucraina per la Russia: «Non dimentichiamo che il primo Stato “russo” registrato dalla storiografia nasce nel IX secolo dopo Cristo nel bacino del Dnepr con capitale Kiev. La “Rus’ di Kiev” divenne lo Stato più grande dell’Europa medievale. Non possiamo ignorare la valenza simbolica di certi avvenimenti». Prendiamo Taiwan, che da sola raccoglie in sé i tre i motivi di cui abbiamo parlato finora, riassume il professore. «La Cina aspira alle sue rotte marittime e alla manifattura di microchip, vuole riappropriarsi di tutto il Mar Cinese Meridionale, ma soprattutto punta a Taiwan perché i cinesi, ossessionati dall’umiliazione subita dal Giappone (le radici della discordia affondano nella prima guerra sino – giapponese, quando l’isola, nel 1895, passò sotto il dominio nipponico, ndr), vogliono chiudere definitivamente la parabola della soggezione».
I confini del mare Come se non bastassero i ritrovati, rinnovati, ristabiliti e germogliati confini degli ultimi trent’anni, un’altra frontiera è pronta a spezzettarsi e a generarne altre: il mare, nuovo ambito di conquista. Per sfruttare i fondali e vegliare sulle rotte, per controllare i gasdotti, per avere più pesce. Perfino il Canale della Manica è diventato una frontiera contesa tra pescherecci inglesi e francesi. Ovviamente dopo la Brexit del 2016, altro colpo inferto all’idea di un mondo globalizzato e per questo libero da vincoli territoriali, «anche se – precisa Stefanachi – Londra è sempre stata eccentrica rispetto al progetto europeo e non deve sorprenderci la strada intrapresa dal Regno Unito». Ma torniamo alla corsa per delimitare i mari, alla «territorializzazione» (termine a suo modo paradossale) dello spazio marittimo: non serve andare troppo lontano visto che nel Mediterraneo orientale i giacimenti di gas naturale fanno gola a tutti i Paesi affacciati sull’area: nel 2022 Recep Erdogan ha firmato un’intesa con il governo di Tripoli per la delimitazione delle reciproche Zone economiche esclusive (Zee), che rischia di mettere a repentaglio gli interessi di altri attori rivieraschi come Grecia e Cipro. È la visione «Mavi Vatan» (Patria blu), cioè l’idea di una maggiore presenza della Turchia nel Mediterraneo anche per quanto riguarda un più ampio sfruttamento delle sue risorse. Sempre la Turchia allarga i suoi interessi verso Cipro, divisa in due dalla cosiddetta Linea Verde (zona cuscinetto istituita dall’Onu nell’estate del 1974 per separare la parte greca da quella turca, triste simbolo della mancata conciliazione): da un lato l’area sotto il controllo della Repubblica di Cipro, dall’altro quella occupata nel 1974 dalla Turchia, poi autoproclamatasi Repubblica Turca di Cipro del Nord. Cipro Sud spera di creare uno Stato federale sull’isola; Cipro Nord vuole mantenere due Stati indipendenti e chiede il riconoscimento internazionale. I giacimenti di petrolio scoperti al largo delle coste cipriote sono un altro generatore di tensione: pur trovandosi nella Zee cipriota (dunque nell’Unione europea), sono un chiodo fisso per Ankara che più volte ha tentato trivellazioni e prese di controllo.
Acque naturalmente contese sono quelle del Mar Cinese Meridionale, strategico perché collega Oceano Indiano e Pacifico, è pescosissimo, con un sottosuolo ricco di idrocarburi e al centro di lucrose rotte commerciali. Ma anche quelle del Mar Nero, che bagna le coste di Russia, Turchia, Ucraina, Bulgaria, Romania e Georgia e che è la via di accesso per la Russia, attraverso Bosforo e Dardanelli, al Mediterraneo. Ecco perché Mosca da sempre cerca di esercitare la sua influenza sugli stretti turchi trovando l’opposizione delle potenze occidentali.
Scenari caldiStefanachi è piuttosto sicuro: «I confini godono di ottima salute e probabilmente resteranno». Piacciono, danno sicurezza. Su questa percezione ha avuto un’influenza decisiva la pandemia: «Il Covid – conclude il docente – è stato lo spartiacque di un paradosso: isolarsi per sentirsi parte di un progetto comune. Abbiamo avuto lockdown e zone rosse, ci siamo sentiti garantiti da una serie di limitazioni che sono state una prima ancora di salvezza». Va, forse, in questa direzione anche il provvedimento del prefetto di Milano, Claudio Sgaraglia, che in città ha stabilito fino al 31 marzo cinque zone off-limits per chi rischia di «rappresentare un concreto pericolo per i cittadini».
Le frontiere si alzano, trovano nuovi narratori. I confini si spostano. A volte è perfino il clima a cambiarli, come è successo tra Svizzera e Italia: lo scorso ottobre è stato trovato un primo accordo per far scivolare di alcuni metri il territorio elvetico sul Cervino. Colpa dello scioglimento del ghiacciaio: perso il vecchio crinale, si è reso necessario stabilire nuovi limiti.