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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

La gente del Donetsk con le valigie pronte

Inviato a Kramatorsk. «Restiamo, restiamo. Anche se c’è la consapevolezza che forse dovremo fuggire…». Lydia Lyshenko tiene per mano Arina mentre cammina per le vie del centro di Kramatorsk. Nelle palazzine intorno, i vetri alle finestre sono stati sostituiti dalle assi di legno, ben più sicure in caso di bombardamenti. «E qui di missili e droni russi ce ne sono abbastanza», sorride la donna quasi a esorcizzare la «paura con cui conviviamo notte e giorno», aggiunge. I negozi hanno le saracinesche abbassate. Chiusi per guerra: quasi tutti. Arina è la sua secondogenita. Ha un anno e mezzo. Ed è la ragione per cui Lydia è tornata, dopo essere evacuata nel primo anno di invasione russa. «Volevo nascesse nella mia terra e in quella di mio marito. Non da qualche altra parte dell’Ucraina». E l’ha partorita sotto le bombe nell’ultima grande città ancora libera della regione di Donetsk. «Siamo stati a Dnipro. Vita troppo dura: c’era da pagare l’affitto; non avevamo lavoro. E soprattutto c’era mia figlia da far venire alla luce», racconta. L’eco dei colpi di artiglieria rompe il silenzio spettrale che avvolge il capoluogo. L’esercito di Mosca è a meno di venti chilometri. «Ed è chiaro che i russi vogliano arrivare fin qui – dice la giovane mamma –. Siamo pronti a partire se tutto precipitasse. Ma c’è bisogno di soldi per andarsene. E poi occorre avere un posto dove ricominciare da capo».
È una città sull’orlo del baratro, Kramatorsk. Nessuno sa quale sarà la sua sorte: se resterà ucraina o se finirà sotto il controllo di Mosca, come era già accaduto dieci anni fa all’inizio degli scontri con i filorussi in Donbass. Ed è il destino che condivide con l’intera regione di Donetsk, nell’est del Paese, che per due terzi è già nelle mani di Putin. Sull’oblast il Cremlino ha concentrato nell’ultimo anno i suoi sforzi bellici. Lo certifica anche lo Stato maggiore ucraino: tre quarti delle battaglie combattute nel 2024 hanno riguardato il fronte del Donbass; e, su 46.200 assalti compiuti dalle truppe russe, 33.700 hanno avuto come sfondo la regione di Donetsk. È l’effetto dell’offensiva su vasta scala lanciata da Mosca per conquistarla completamente: magari prima che si apra una trattativa. A poco è valsa l’incursione di Kiev nella regione russa di Kursk che, a partire da agosto, doveva alleggerire la pressione in Donbass. In dodici mesi sono stati strappati all’Ucraina 4.100 chilometri quadrati, in gran parte nel Donetsk e per la metà negli ultimi quattro mesi. «Con questo ritmo ci vorranno tre anni prima che i russi occupino l’intera oblast», provano a rassicurare le forze armate di Kiev. Eppure l’esercito di Putin procede a una media di 18 chilometri quadrati al giorno. E sta stringendo in una tenaglia il segmento della regione su cui ancora sventola la bandiera blu e gialla. «A noi mancano uomini e armi», denunciano i soldati di stanza qui.
Per facilitare l’avanzata, i russi compiono raid a tappeto dal cielo (fino a 1.300 al giorno nella regione di Donetsk) e annientano gli abitati a ridosso della linea di combattimento. «Ormai bombardano tutto. Non solo palazzi e strade, ma soprattutto i civili che tentano di fuggire, le ambulanze che soccorrono i feriti, noi poliziotti che, insieme ai volontari, evacuiamo gli ultimi irriducibili e che finiamo nel mirino dei droni: ci seguono e ci attaccano sistematicamente». Pavlo Dyachenko sa di rischiare ogni volta la vita quando raggiunge i villaggi sul fronte per «soccorrere la nostra gente ed evitare che muoia sotto il fuoco nemico», dice. È uno degli agenti – e anche il portavoce – della squadra della polizia di Donetsk che salva dall’inferno russo chi ha resistito fino allo stremo. «E magari già vede i militari di Putin entrare nella via accanto a quella in cui abita», riferisce il poliziotto. “Angeli bianchi” li hanno soprannominati i bambini portati via quando hanno visto il colore dei mezzi impiegati. Ed è ditorsk ventato il nome della divisione. La geografia dell’orrore che Pavlo descrive è quella delle località sotto assedio dove, ammette, «alcuni di quelli che restano aspettano i russi». E spiega: «Una delle zone più a rischio è Lyman. Per i costanti raid si fa ormai fatica a recuperare gli anziani rimasti». È il paesone che guarda verso la regione di Kharkiv.
«Anche a Myrnohrad la situazione si è fatta complicatissima». Le truppe di Mosca sono a un chilometro. E l’agglomerato confina con Pokrovsk, la città su cui stanno puntando i battaglioni di Putin per poi mettere sotto controllo la principale via di comunicazione della regione che, da una parte, li porterebbe a Krama- e, dall’altra, a Dnipro e Zaporizhzhia, i capoluoghi delle due oblast limitrofe. Quarantamila gli evacuati dalla fine dell’estate. «A Pokrovsk non ci sono più acqua corrente ed elettricità. L’80% degli edifici è stato danneggiato. Ed è sempre in vigore il coprifuoco, tranne che per quattro ore al giorno. Non ci dovrebbero essere più bambini ma alcune famiglie sono tornate clandestinamente. Non capiscono quanto sia elevato il pericolo. Abbiamo recuperato un ragazzino di 15 anni che teneva in una mano l’altra appena tranciata da un’esplosione. E portato via il cadavere di un uomo ucciso davanti a casa in un raid». L’agente racconta di Kurakhove, la nuova Bakhmut, a un passo dalla capitolazione, dove «i droni russi hanno colpito una nostra auto e quella di una Ong uccidendo una volontaria»; di Kostiantynivka, «mia città natale e sempre attaccata»; di Toretsk «ormai al 70% occupata» in cui i soldati di Putin si fingono civili per aggirare le postazioni di Kiev; e di Chasiv Yar «rasa al suolo e per metà finita sotto i russi dove restano in trecento». È il villaggio- vedetta sulla collina che, se venisse conquistata, porterebbe le truppe del Cremlino verso le principali località dell’oblast ancora sotto il controllo ucraino. A cominciare da Kramatorsk.
«In 70mila rimangono in città, la metà di quelli che avevamo prima del conflitto. E fra loro ci sono 7mila bambini: tutti hanno traumi psicologici per la guerra, anche se talvolta i genitori non se ne rendono conto», spiega Oleksandr Ivanov. È il responsabile “Tato hub”, uno dei pochi punti d’incontro aperti per i giovanissimi. «Le nuove disposizioni regionali ci consentono di accoglierne massimo quattro per volta: troppo a rischio i raduni numerosi – fa sapere –. Quando chiediamo ai padri e alle madri: “Perché non ve ne andate?”, rispondono: “Noi siamo di qui”». Vale anche per Mykola Khemii, anima di varie Ong, che nella sua città d’origine è rientrato da due anni. «I nostri militari ci difendono. Noi aiutiamo quanti resistono. Conosciamo le difficoltà in prima linea. E siamo al corrente dei morti che si moltiplicano. Ecco perché vivo e viviamo alla giornata», dice il volontario, quasi a voler allontanare l’incubo dell’accerchiamento russo che incombe. E aggiunge: «Non penso a ciò che avverrà fra qualche settimana. Mi concentro sulle necessità di oggi». Quelle, ad esempio, degli anziani «che non hanno più soldi». Quelli dei bambini «che hanno perso il sorriso». Quelle degli sfollati giunti dagli abitati asserragliati. «Una donna mi ha mostrato un video su Chasiv Yar distrutta. E mi ha indicato un punto: “Questa era la mia casa. Non resta nulla”. Poi è scoppiata in lacrime».
Si vive da sommersi nel capoluogo di un distretto dove le miniere, la siderurgia e le ferrovie hanno segnato gli ultimi decenni di storia. Deserte le strade. Si esce solo per comprare qualcosa o cercare ciò che serve a sopravvivere. Lungo le vie per lo più militari che fanno avanti e indietro con le trincee. Qui il vescovo greco-cattolico di Donetsk, Maksym Ryabukh, che non può mettere piede nella Cattedrale della città che dà il nome alla sua diocesi perché occupata dall’esercito russo, ha voluto aprire la Porta giubilare nella chiesa più vicina ai campi di battaglia. Sullo stipite la scritta “Pregate per l’Ucraina”. «Benché stanchi, Dio ci ripete che la pace verrà e il male non ha mai l’ultima parola», sottolinea il vescovo salesiano mentre i rumori della guerra accompagnano l’inizio dell’Anno Santo. La sua è una voce di speranza, come richiama il Giubileo, in una terra dove non si riesce a immaginare il futuro. «Vogliamo che il conflitto si fermi al più presto, ma con negoziati seri», avverte Oleksandr. E Mykola chiosa: «Quando le armi taceranno, temo che in tante nostre città avremo solo bambini, donne e anziani. Compresa Kramatorsk. Sempre se resterà nostra