Libero, 4 gennaio 2025
Koons in dialogo con Picasso
Jeff Koons può infischiarsene dell’Intelligenza artificiale: compirà settant’anni il 21 gennaio, ha un patrimonio stimato 400 milioni di dollari, nel 2019 il suo coniglio in acciaio è stato venduto per 91,1 milioni, l’opera di un artista vivente battuta all’asta più costosa della storia, è un collezionista di Picasso e ora con Picasso dialoga pure, in mostra all’Alhambra di Granada. La sua arte è immediatamente riconoscibile, e da chiunque, hai voglia a copiargliela, come invece capita agli altri artisti, i poveri cristi che hanno fondato il movimento “Say No to AI” perché l’intelligenza artificiale generativa ruba le loro opere d’arte e il loro stile, senza permesso.
Koons è come Andy Warhol, Il grande massificatore, arte da Gdo. Per di più, non ha avuto il buongusto di diventare un grande artista dopo essere morto (non c’è da stupirsi, Koons il buongusto non sa dove sta di casa, anni fa la critica Rosalind Krauss lo polverizzò con un unico aggettivo, “ripugnante”), e quindi può essere ancora intervistato.
Un giornalista del Guardian gli ha chiesto se intende utilizzare l’Intelligenza artificiale e se crede che sia una minaccia. Hai presente l’invenzione della fotografia, nell’Ottocento, ha risposto l’artista, accadrà lo stesso: tutti pensavano che le foto avrebbero soppiantato la pittura. Invece dal realismo si passò all’astrazione, i cubisti si misero a scomporre, lo spazialismo scoprì quanto il vuoto potesse essere pieno. Poi Koons ha parlato come parla Cucinelli, che dice cose meravigliose ma sempre un po’ sfocate: «Magari userò l’Ia in futuro, ora mi interessa la biologia (ha sempre parlato dei suoi otto figli come “sculture biologiche”, ndr). Sai, la vita è semplicemente una sequenza di reazioni chimiche. Credo molto in questo processo biologico e nei sensi: la vista, il tatto, le sensazioni… Non voglio essere pigro e stare in secondo piano. La biologia ci ha dato la creatività, che non è la mera capacità di sommare più elementi, ma di trasformarli e renderli un’entità nuova. Ad oggi, l’Ia non è ancora in grado».
Marcel Duchamp, colui che riuscì a convincere tutti del perché quell’orinatoio in porcellana ruotato di novanta gradi fosse arte, diceva di non credere nell’arte ma negli artisti, e proprio per questo s’arrabbiava per l’espressione «bête comme un peintre», stupido come un pittore. Il francese lavorava a una rivoluzione: bisognava andare oltre l’aspetto fisico della pittura, diceva, concentrarsi sull’aspetto intellettuale, non fare meglio (quale progresso c’è stato in Brancusi rispetto a Fidia?), piuttosto fare diverso.
L’Ia generativa sarà in grado di fare diverso? Secondo i creatori di Ai-Da, sì. Ai-Da, che prende il nome da Ada Lovelace, la prima programmatrice della storia, è un robot umanoide che sfrutta l’intelligenza artificiale per dipingere. A novembre Sotheby’s ha venduto una sua opera, un insignificante ritratto di Alan Turing alto più di due metri, per 1,1 milioni di dollari. Il robot è stato ideato dal gallerista Aidan Meller e dalla ricercatrice Lucy Seal: come ogni movimento artistico, hanno spiegato, Ai-Da è il riflesso delle preoccupazioni della nostra epoca. È la personificazione delle paure della nostra società, l’ascesa degli algoritmi che rubano posti di lavoro e il possibile dominio dei robot. Ma quindi è Ai-Da è arte o è l’artista? È un artista, ha detto Meller, perché l’algoritmo prende decisioni e se può prendere decisioni è creativo. È sufficiente?
Secondo Marcus du Sautoy, matematico dell’Università di Oxford, autore de The Creativity Code: Art and Innovation in the Age of AI (Il codice della creatività: arte e innovazione nell’era dell’IA), no: l’intenzione è ciò che distingue la creatività dell’uomo da quella della macchina. «Nessuna macchina è spinta a esprimersi in modo creativo», scrive, «lo è perché l’uomo gliel’ha imposto». E i robot come Ai-Da, sebbene capaci di autoritratti, non possiedono autoconsapevolezza. Non basta avere un’idea, non basta neanche perseguirla (viene in mente la frase attribuita a Thomas Edison, il genio è l’uno per cento ispirazione e il novantanove per cento traspirazione, e d’altronde se non fosse vero Balotelli sarebbe Messi), l’arte richiede di scegliere di farla.
L’Ia sarà «bête comme un peintre»? Mauro Covacich, dopo aver visitato la Biennale di Venezia, ha scritto che le opere erano solo denuncia e impegno civile: ambientalismo, colonialismo, patriarcato, neofemminismo, diritti Lgbtq+. Un’arte che informa, un’editorialista, destinata a esser dimenticata domani, perché il contemporaneo è datato al calar del sole. Quest’arte non fa il suo mestiere, non dà scandalo, si ferma all’ispirazione, a riportare ciò che vede. Se dobbiamo credere negli artisti, l’arte val bene un Jeff Koons.