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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

Biografia di Dacia Maraini

Da più di vent’anni Dacia Maraini trascorre una buona metà del suo tempo nella sua casa in Abruzzo, nel parco nazionale. Il primo ricordo, però, la porta lontano dal muschio e dal ginepro dei monti marsicani: è quello dell’odore della «soya calda di un dolce di riso, l’omochi, che da piccola ha molto amato», dice a La Stampa, tra il brusìo degli amici che sono venuti in questi giorni di feste a trovarla. 
In Giappone visse i suoi primi anni.
«Mio padre, Fosco, era partito dopo avere vinto una borsa di studio internazionale, con la giovane moglie e la figlia di un anno, io. Abbiamo vissuto per molto tempo a Sapporo, nel gelido Hokkaido, in mezzo a persone accoglienti e solidali. Un’esperienza che mi ha aiutato a conservare amore e stima per i giapponesi nonostante ciò che accadde poco dopo». 
Nel ’43 finiste in un campo di concentramento a Nagoya
«Il Giappone era alleato col regime italiano. I miei genitori, separatamente, decisero con coraggio di non firmare l’adesione alla Repubblica sociale italiana: ci dichiararono traditori della patria e ci internarono». 

Lo ha raccontato in «Vita mia»: furono mesi di inedia e malattie che provocavano improvvise emorragie. 
«Per tenerci caldi, e anche per consolarci della fame, dormivamo abbracciati come una famiglia di scimmie su un albero spelato. Restammo a lungo in quella zona che sta fra la morte e la sopravvivenza dolorosa». 
In quel campo, suo padre, uno dei grandi antropologi del ’900 italiano, si tagliò un dito e lo scagliò addosso al capo delle guardie.
«Si chiamava Kazuya, era tutto vestito di bianco. Quando si vide schizzare il sangue addosso, gli puntò contro una spada. Pensai che lo uccidesse, ma papà sapeva quello che faceva. Nella filosofia dei samurai, lo “yubikiri”, il taglio del dito, comportava creare una obbligazione al nemico. E infatti, dopo una settimana, Kazuya arrivò con una piccola capra. Fu una salvezza: il latte vitaminico della bestiola ci permise di sopravvivere». 
Molti anni dopo la prigionia, sarebbe tornata per cercare quel campo. 
«Non riuscii a trovarlo: avevano eliminato ogni traccia. Nessuno sapeva niente, nemmeno chi abitava nei dintorni. Ma anche in Italia è stato lo stesso: chi sa che ci sono stati dei campi in Giappone in cui i cittadini italiani contrari al fascismo sono stati internati?». 

Tornaste in Italia nel ’47. Ad accogliervi, in Sicilia c’era la famiglia di sua madre: gli Alliata di Salaparuta. Monarchici dal sangue blu.
«Erano stati molto potenti ai tempi del feudalesimo, ma nel dopoguerra si erano ridotti malissimo, salvo un ramo che aveva fatto un matrimonio con una latino-americana piena di soldi». 
Sua madre Topazia era cresciuta insieme a Renato Guttuso.
«Tutti e due di Bagheria, e tutti e due amanti della pittura. Per molti anni si persero di vista, si ritrovarono nel dopoguerra a Roma». 
Quando pensò «voglio fare la scrittrice»?
«Ho cominciato a leggere prestissimo. I libri in casa erano molti, ci passavo ore, anche di notte, tanto che di giorno cascavo dal sonno. A 13 anni cominciai a scrivere sul giornale della scuola, a 17 fondai una rivista. Da allora non ho più smesso». 

L’esordio non fu facile: il suo primo romanzo, «La vacanza», stentò a essere pubblicato.
«Nessuno lo voleva. Solo un editore, Lerici, mi disse: “Se mi porta la prefazione di uno scrittore importante lo stampo”». 
Accettò Alberto Moravia.
«Fu l’unico a leggerlo. E, per fortuna, andò bene: non ho più avuto bisogno di una prefazione prestigiosa». 
La vostra storia iniziò poco dopo: restaste insieme per più di 15 anni.
«Alberto era umile, niente affatto preso dalla sua notorietà. L’ho molto amato per il carattere, la cultura immensa, l’ironia, la giovinezza di spirito, l’eleganza intellettuale». 
Era considerato un seduttore. 
«Era ricercato dalle donne per la sua gioia di vivere e per la sua capacità affabulatoria, ma non era un tombeur de femmes, e non aveva paura del talento femminile, come invece purtroppo accade a molti uomini. Lo dimostra il fatto che sposò Elsa Morante, una donna di grande talento e intelligenza». 
Quando lo conobbe erano già separati? 
«Sì. Elsa era stata innamorata prima di Luchino Visconti, poi di un giovane pittore, Bill Morrow, e ne raccontava a Moravia tutti i dettagli. Quando andai a vivere con Alberto, non si arrabbiò né si offese. Pretese solo che il loro matrimonio rimanesse un vincolo legale». 
E lei?
«Accettai la scelta di Elsa come un dato del suo carattere: era portata all’assolutismo e a una certa fede nelle istituzioni religiose». 
Di Moravia e Pasolini lei ha scritto che uno era tutto ragione, l’altro tutto sensualità.
«Pier Paolo provava un rifiuto anarcoide e rabbioso nei riguardi della ragione. Per lui contavano le sensazioni, le premonizioni, le improvvise intuizioni». 
I suoi viaggi insieme a lui e Moravia furono memorabili.
«Alberto non si stancava mai. Una sera arrivammo in un villaggio del Centro Africa dopo otto ore su una land-rover coperta di polvere che non aveva fatto che saltare sui sassi. Sognavamo solo un letto per riposare. Entrati nel villaggio, sentimmo una musica, la gente danzava. Alberto mi tirò per un braccio dicendo: “Andiamo a ballare?”». 
E Pasolini? 
«Un giorno ci fermammo in un villaggio miserabile. Un vecchio a piedi scalzi ci offrì il suo riso in un sacchetto. Dopo averlo cotto, ci accorgemmo che era infarcito di insetti morti. Il primo istinto fu buttarlo via. Ma Pier Paolo disse di no: dovevamo mangiarlo perché l’uomo era stato così gentile da offrirci la sua ultima riserva. E così facemmo, cacciando in bocca una specie di pappa che puzzava di muffa». 
Ma è vero che amò Maria Callas?
«Certo, anche se ovviamente in modo platonico. Pier Paolo aveva un problema con la madre. L’aveva talmente amata che trovava in ogni donna il suo spettro. Diceva spesso: “Fare l’amore con una donna sarebbe come farlo con mia madre”». 
Qualche anno fa molti dei suoi libri, da «La lunga vita di Marianna Ucrìa» a «Bagheria», sono finiti in un Meridiano: è capitato a pochi scrittori viventi, e a pochissime scrittrici. 
«Oggi le donne sono accettate come autrici ma, se si parla di prestigio, difficilmente entrano nella memoria istituzionale. E, quando si va nei luoghi dove si stabiliscono valori e modelli letterari per le prossime generazioni, scompaiono». 
Mi dica allora un’autrice contemporanea che merita di essere letta.
«Più d’una: Silvia Avallone, Valeria Parrella, Claudia Durastanti, Chiara Valerio. Potrei continuare». 
Ha un desiderio? 
«Quello di invecchiare senza perdere il buon senso e la gioia di vivere».