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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

I fantasmi della rotta balcanica

Afgani soprattutto (44%), ma anche bengalesi, pakistani, curdi in fuga da Turchia, Siria e Iraq. Più del 50 per cento dall’Italia ci passa soltanto, soprattutto le famiglie, che nel 47% per dei casi sono dirette in Germania, o altri Paesi. Scivolano come ombre lungo le banchine dei regionali che a tarda sera o all’alba puntano verso Nord-Ovest: Milano, con direzione Lugano, per chi ha come meta l’Europa Centrale o del Nord, Ventimiglia per chi va in Francia o Oltremanica.Un fiume di invisibili, che solo di tanto in tanto a livello istituzionale affiora. A inizio dicembre, gli assessori dei Comuni di Milano, Brescia, Bergamo, Monza, Verona, Vicenza, Padova, Venezia e Udine hanno inviato al Parlamento una richiesta bipartisan: «Rafforzare la presa in carico della rotta balcanica, unendo le forze istituzionali e offrendo una risposta strutturata per questi richiedenti asilo». Per la deputata dem Rachele Scarpa, che l’ha portata in aula: «Che siano fuori dai circuiti dell’accoglienza non cancella le persone». Al massimo le nasconde.In Carso è semplice. Per capirlo basta percorrere la ciclopedonale che da Trebiciano, lì dove Trieste lascia il passo al Carso, porta a Orlek, in Slovenia. Neanche tre chilometri di sentiero in mezzo al bosco, a piedi quaranta minuti scarsi, con l’asfalto che lascia il passo allo sterrato per poi tornare bitume quando si arriva alle prime case. Più o meno a metà, la frontiera è un sasso, preannunciata da un cartello annerito su cui qualcuno ha scritto “No borders”, niente confini. Lungo la via, dettagli raccontano i transiti. Una scarpa zuppa d’acqua, un giubbotto sbrindellato, un biglietto accartocciato del treno che da Brezovica, in Slovenia centrale, porta a Sesana, a un passo dal confine con l’Italia. In mezzo all’erba, frammenti di carta. “Registracijski”, si legge su uno datato 19 novembre. Un altro ancor più recente dice che da lì è passato un ragazzo indiano di 25 anni. Sono i fogli che vengono rilasciati al passaggio in frontiera. Molti non hanno neanche quelli, scivolano come ombre attraverso i confini, visibili solo a chi ha imparato a lucrare sulla disperata necessità di raggiungere un luogo sicuro e sull’assenza di canali legali e rapidi per farlo.«La Slovenia – spiega Urša Regvar, operatrice del Centro legale per la protezione dei diritti umani e dell’ambiente di Lubjana – è sempre stata terra di transiti rapidi, adesso sono ancora più veloci». In pochissimi si fermano: se più di cinquemila persone hanno formalmente manifestato l’intenzione di chiedere asilo, non sono più di cento-centocinquanta le procedure attivate. «Il sistema – dice Regvar – non potrebbe reggerne di più». Soprattutto se si tratta di minori stranieri non accompagnati. Per loro non esiste un circuito di protezione specifico, né comunità specializzate.«I pochi che riusciamo a intercettare e a cui offriamo supporto legale – dice Regvar – spesso raccontano di aver contratto debiti per affrontare il viaggio, quindi hanno urgenza di lavorare per ripagarlo». Ecco perché dai centri scivolano via, volontariamente o perché ci sono passeurs a aspettarli. «Sospettiamo che alcuni possano essere vittime di tratta, ma i percorsi di emersione sono lunghi e il transito troppo rapido». La rotta rischia di essere una spirale in cui quei ragazzini si perdono.L’inizio del gorgo inizia molto prima della Slovenia, probabilmente nel Paese d’origine. Ma anche questo – spiegano le associazioni – è dato troppo fresco. Da circa un anno, lungo i Balcani transitano gruppi di ragazzini egiziani. «A volte – spiega Silvia Maraone, coordinatrice dei progetti di Ipsia (Istituto Pace Sviluppo Innovazione Acli) in Bosnia Erzegovina, al confine con la Croazia – ne vediamo venti o trenta insieme, tutti minori, accompagnati da un unico adulto». Molti raccontano di aver pagato parte del viaggio lavorando per un periodo in Grecia. Da schiavi nei campi, nella migliore delle ipotesi. Per i più, nel giro dello spaccio e della prostituzione a Atene. Lo stesso inizia a succedere – spiegano invece alcunioperatori italiani – a adolescenti pakistani, o gruppi di donne nepalesi, che a ondate compaiono sulla rotta. Per gli osservatori, è un classico circuito di tratta, ma troppo pochi ne escono e possono raccontarlo in dettaglio.Il costo delle frontiereAnche al confine fra Croazia e Bosnia, uno degli snodi centrali della rotta, il passaggio è diventato rapido. Ma non meno violento. «Non abbiamo mai visto tante persone ferite così seriamente – spiega da Lubjana Ursa Regvar – Molti gruppi raccontano che la polizia croata porta via tutto, anche i telefoni». Il prezzo dell’ingresso in Europa per Zagabria è stato un ruolo da gendarme e in questo senso ha lavorato da quando si è appuntata sul petto la stella dell’Ue. Bruxelles lo vuole, ci crede e ci punta: «La Croazia sta contribuendo al buon funzionamento dell’area Shengen, ridimensionando i problemi grazie al dispiegamento di uomini e mezzi soprattutto al confine con la Bosnia Erzegovina», si afferma nella dichiarazione finale dell’ultimo Scifa meeting, il comitato Ue sull’immigrazione. Per il futuro, c’è un piatto da più di 93 milioni di euro da spartire con Romania, Ungheria e Bulgaria per nuove tecnologie e attrezzature «per migliorare il controllo dei confini esterni dell’Unione».Il campo di Lipa, a venticinque chilometri da Bihac, pieno di persone respinte alla frontiera e ammassate della neve, è stato per anni il risultato più visibile di queste politiche. Squat e “jungle”, gli insediamenti informali, nati poco lontano, quello che ci si è rifiutati di vedere. Ma anche questa è in parte una fotografia datata. Il campo adesso è semivuoto e chi ci arriva non rimane mai troppo tempo.«Il game, l’attraversamento delle frontiere, oggi si chiama “taxi game” – spiega Silvia Maraone – I tratti a piedi sono limitati all’attraversamento del confine, il resto si fa su auto e pulmini scassati». Più si paga, più è sicuro. «Rispetto al 2023 non sembrano cambiati i numeri, ma si è specializzato il meccanismo della rotta organizzata. Le persone passano poco dai campi, probabilmente si appoggiano al sistema alternativo di chi gestisce pezzi di rotta e noi – ammette – non abbiamo strumenti per sapere se in questo momento ci sia gente chiusa in cantine o garage». Anche il prezzo della rotta è cresciuto, si arriva a quattro-cinquemila euro, spesso da ripagare nel tempo e con gli interessi. «Le politiche di chiusura dell’Ue – dice – si sono rivelate un totale fallimento, hanno reso solo più vulnerabile chi già lo era».Modello LibiaSul confine sono nate le safe house. A dispetto del nome, quelle case non sono sicure per niente. Esattamente come in Libia, in Tunisia o in Turchia, dove identica o quasi è la dinamica, sono degli stalli in cui gruppi più o meno numerosi aspettano il mezzo che li porterà per un tratto o da un confine all’altro. E sono luoghi in cui può accadere di tutto, anche di entrare in un circuito di detenzione e abusi da cui si esce solo pagando. «L’estate scorsa – spiegano da Ipsia – abbiamo incontrato un gruppo di persone che erano state sequestrate da una banda, pare di afgani. Gli uomini sono stati picchiati, le donne violentate. I sequestratori hanno filmato gli abusi, poi hanno mandato quei video alle famiglie perché pagassero il riscatto». Il destinatario del versamento stava a Atene. Nei mesi scorsi, quel gruppo criminale pare sia stato in parte disarticolato, in parte si sia spostato altrove. Ma sulla rotta ne sorgono sempre di nuovi. Sebbene non esista un sistema di detenzione arbitraria e abuso organizzato come in Libia, anche nei Balcani racconti di sequestri, violenze e estorsioni sono sempre più una costante. E il “modello di business” è arrivato a Trieste.15 settembre. Una donna indiana, da tempo residente in Lombardia, si presenta in commissariato. È agitata. Racconta di aver ricevuto una telefonata da amici in India, terrorizzati per la sorte di tre familiari appena arrivati a Trieste. «Li hanno presi, hanno chiesto 15mila euro entro domani mattina per liberarli», spiega. Nel giro di poche ore, la Squadra mobile individua l’appartamento e trova tre ragazzi malconci in una stanza chiusa dall’esterno. In manette finiscono due pakistani. Meno di un mese dopo, il copione si ripete.14 ottobre, stazione di Trieste. Un giovane pakistano ferma una pattuglia della polizia locale. Parla in modo concitato, dice di essere in fuga da due uomini che lo hanno derubato, pestato, sequestrato mentre faceva ritorno verso il giaciglio che insieme ad altri condivide al Porto Vecchio. È un richiedente asilo, ma da settimane è costretto a arrangiarsi in attesa che per lui ci sia un posto in accoglienza. «Chiama tuo padre e digli di pagare duemila euro o continuiamo», gli gridavano mentre lo riempivano di calci, pugni, botte, in modo che il genitore sentisse distintamente le urla.La procura getta acqua sul fuoco: «È sempre successo». La Trieste di associazioni e comitati si allarma. «Le persistenti carenze istituzionali nell’assicurare soccorso umanitario alle persone in transito e la prima accoglienza – denuncia Gianfranco Schiavone, giurista e fra i fondatori di Ics – sono il principale fattore che rende possibile il nascere e diffondersi di fenomeni criminosi». Parole al vento.Dalla fine del Silos ai nuovi sgomberiLa chiusura del Silos, vecchio stabile non troppo distante dalla stazione dove anche in trecento richiedenti asilo sono stati costretti a vivere in attesa che il sistema trovasse un posto per loro, non è stata accompagnata da soluzioni alternative. E quelle promesse – i lavori di ampliamento a Campo Sacro, vecchio ostello scout alla periferia di Trieste – arrancano. La prefettura in estate ha acquisito il terreno, Unhcr ci ha messo un po’ di prefabbricati per aumentare la capienza, ma è toccato zavorrarli perché troppo leggeri per reggere alla bora, altri non ne sono arrivati.Risultato, molti hanno continuato a rimanere fuori dal sistema d’accoglienza. Dal 21 giugno, giorno della chiusura del Silos, fino all’autunno inoltrato, in centinaia hanno trovato spazio nei pressi della stazione o al Porto Vecchio. A novembre, in quasi 200 la notte erano costretti a accamparsi sotto una pensilina, al varco Monumentale, giusto all’ingresso dell’area che in futuro dovrebbe ospitare gli ufficidella Regione, sale congressi, centri commerciali e ristoranti, ma oggi per metà area di cantiere, per metà monumento all’abbandono.In tanti in città hanno chiesto risposte e soluzioni, ma è arrivato solo uno sgombero. Il 20 novembre, 111 tra operatori di polizia, carabinieri e finanza, sanitari, funzionari della protezione civile, vigili del fuoco e tecnici della prefettura all’alba si sono presentati al varco monumentale dove in quel momento dormivano 180 migranti. La maggior parte è stata trasferita fuori regione, per altri si è trovato un posto in città. Per il futuro, nessun programma, se non trasferimenti da disporre con maggiore o minore regolarità.«Le istituzioni preferiscono spendere 15mila euro per spostare i migranti costretti a dormire all’addiaccio piuttosto che istituire un centro di bassa soglia che alla collettività costerebbe molto meno – spiega Nicolò Giraldi, giornalista di Triesteprima, nota testata locale online – Le persone continueranno a arrivare e il business criminale a crescere. Oggi la situazione è più leggera, ma in futuro il problema si ripresenterà». Anzi già lo ha fatto.Da mesi i magazzini del Porto Vecchio hanno iniziato a riempirsi. È una distesa di stabili tutti uguali senza luce, acqua, gas, servizi. Ma qualche finestra è ancora integra e fa meno freddo che all’addiaccio. In alcune stanze, giacigli raccontano la vita di chi si arrangia nell’attesa o nella speranza di una prospettiva. «Sono qui da due settimane», dice Ahmad, che racconta del suo passato da sportivo e dei sogni spezzati. «Mio padre aveva una palestra di judo, io facevo gare, ero bravo. Poi i talebani l’hanno chiusa perché ci andavano gli americani». Non c’è posto in cui allenarsi ai magazzini. Per mangiare, dormire, scaldarsi ci si straia a terra. Una pipetta da crack poggiata sul davanzale racconta che lì è anche facile perdersi.Il buco nero dei serviziFa freddo a Trieste, soprattutto quest’anno. «Con l’inverno – spiega Gianfranco Schiavone – la rotta diventa più difficile e gli arrivi calano. Dall’ultimo sgombero i trasferimenti stanno proseguendo in maniera più o meno regolare, ma soluzioni a lungo termine non cene sono». Soprattutto per chi da Trieste passa per rifiatare, per attendere un treno, per non fermarsi. Li chiamano “i transitanti”.In una gelida serata di dicembre hanno il volto di tre bambine e un bambino curdo siriani, Jina, Leila, Hana e Diyar. Sono partiti da un campo profughi in Turchia, dove hanno vissuto negli ultimi tre anni, dopo essere stati costretti a lasciare Idlib. Viaggiano con le madri e il marito di una delle due. «Assad è caduto, ma per noi cambia poco. Sono gli stessi che ci hanno costretto a lasciare casa nostra», dice lui. Per loro la speranza è il regionale delle 22.06. Nelle statistiche non esistono, né per il sistema pubblico di accoglienza. L’ostello di via Gioia, un mercato coperto riconvertibile in struttura a bassa soglia, è pronto da più di due anni. Ma rimane chiuso. Ufficialmente, per problemi all’impianto di riscaldamento. «In realtà, è solo questione di volontà politica», spiega Marianna Buttignoni, dell’associazione Linea d’ombra, una delle anime della “Rete solidale Trieste”, cordata di comitati, sigle, singoli cittadini che fornisce assistenza sanitaria, legale, sociale a chi in città arriva per fermarsi o semplicemente per rifiatare.Per il centrodestra locale e regionale, “un pull factor”. Con bicchieri di té caldo, coperte e giubbotti – questa la teoria – spingerebbero i migranti a transitare per Trieste. «In realtà siamo solo la voce della loro coscienza sporca», attaccano gli attivisti, mentre in piazza distribuiscono piatti di zuppa calda. «Chi ci dice che si può mettere un tappo sul confine mente sapendo di mentire – ha detto pubblicamente Buttignoni quando per la rete ha ritirato la targa del premio San Giusto – Ammiriamo le ragazze dell’Iran, eppure quando arrivano in piazza Libertà sono costrette a cambiarsi l’assorbente dietro la statua di Sissi». Stizziti, il sindaco Roberto Dipiazza e un paio di assessori regionali si sono alzati e sono usciti dalla sala.La rete – Comunità di San Martino al Campo, Diaconia Valdese, Ics, International Rescue Committee, Resq People, Linea d’Ombra, No Name Kitchen e DonK, fra le realtà più note – ha fatto spallucce e ha continuato a presentarsi ogni sera e ogni notte in piazza a dare risposte, beni di conforto, sostegno. Da lì, cipassano tutti. Chi inizia a mettere radici a Trieste o spera di farlo, chi ancora attende un posto in accoglienza, chi passa, chi dal sistema è rimasto fuori. Le loro storie sono la fotografia di un sistema diventato un labirinto a ostacoli, che per molti a Trieste inizia dall’Acquario.La sezione della questura dedicata ai richiedenti asilo, la chiamano così, ma quello che succede lì dentro nessuno lo vede. È coperta da grandi pannelli grigi, di chi dentro sta in fila si intravedono le scarpe, le gambe se si accascia in attesa, gli zaini poggiati per terra. Sono i fortunati, gli altri rimangono fuori a aspettare. Adil è fra loro. Arriva dal Pakistan, dice di aver lavorato con forze di sicurezza straniere e sembra avere paura persino a raccontare la sua storia. «Non posso tornare, mi uccidono». Non ha passaporto con sé, senza – racconta – non gli permettono di presentare la domanda di asilo. Ci sono volute un paio di pec dei legali di Ics perché avesse finalmente un appuntamento. È un passaggio fondamentale, da lì dipende l’ingresso in accoglienza, l’inizio di una procedura di regolarizzazione, la possibilità di avere un futuro. «Ma è sempre più complicato – spiega Maddalena, operatrice legale di Ics – Spesso le persone vengono rimandate indietro perché su google maps hanno un tag su un’altra città, o la scheda telefonica attiva da troppo tempo, o un biglietto del treno con destinazione diversa da Trieste». È il “decreto flussi” che diventa realtà concreta e taglia fuori tanti, rendendo sempre più difficile avere documenti e sempre più semplice perderli.Il limbo burocraticoA Quadir Bakhs è successo. Sulla carta, era uno di quelli che ce l’aveva fatta o quasi. Da richiedente asilo aveva trovato un lavoro nel gigantesco indotto dei cantieri di Monfalcone, era ospite a casa di un amico in attesa di trovare un posto tutto per sé, aspettava risposte dalla commissione. Un intoppo nel rinnovo del permesso, gli ha fatto perdere tutto: il lavoro, la casa, la speranza. Il 22 novembre all’alba un runner ha trovato il suo corpo che galleggiava vicino al Molo Audace, a un passo dai palazzi delle massime istituzioni. È scivolato dopo aver bevuto troppo o ha deciso di farla finita? Le indagini sono ancora in corso, ma nei locali del centro diurno – uno dei punti di riferimenti per i richiedenti asilo in città – è stata trovata la borsa da cui non si separava mai.Non fosse stato per la sua tutrice e per l’Ics che per lui si è mossa, anche Khaled, arrivato dall’Afghanistan a diciassette anni, sarebbe stato divorato dal sistema. Trasferito in un centro per adulti da minorenne, sbattuto fuori non appena la sua domanda d’asilo è stata accolta, per mesi è stato obbligato a vivere lavorando da schiavo. Dalla Prefettura non è partita alcuna segnalazione per il circuito di seconda accoglienza e ci è voluto l’impegno di associazioni e singoli perché avesse ospitalità e supporto che gli spettavano di diritto. Rashed invece ancora aspetta. Ventisei anni, pelle, capelli e occhi chiari, viene dal Waziristan, striscia di terra eternamente contesa fra Pakistan e Afghanistan. Prende il cellulare e mostra una foto. Dietro l’unica striscia d’alberi che si intravede, spiega, ci sono i talebani, il rudere accanto un tempo era la casa dello zio. «Da quando sono nato, ho visto solo guerra. Mio fratello l’hanno ammazzato davanti ai miei occhi, poi hanno detto che presto sarebbe toccato a me», racconta. In quel momento la madre ha deciso per lui: meglio un figlio lontano, che morto o costretto a arruolarsi per fare da carne da cannone. «Se alla mia richiesta di asilo dicono “no” dove vado? Casa non ne ho più, non so neanche se sia ancora in Pakistan». Eccoli i cocci del mondo e i fallimenti della politica internazionale che rotolano nel centro di una piazza che diventa babele di lingue, dove la solidarietà supplisce ai servizi che mancano, la cura è paracetamolo e un dentifricio, un pasto caldo e un appuntamento con un legale, un giubbotto e un “come stai?”, pratica quotidiana che ritrasforma in persone quelli che il sistema vorrebbe fantasmi.