la Repubblica, 5 gennaio 2025
David Livermore dice che l’opera lirica è morta
Regista di lirica e prosa, direttore del Teatro Nazionale di Genova, Davide Livermore ha firmato per quattro volte consecutive il Sant’Ambrogio della Scala in mondovisione, dal 2018 al 2021, ottenendo uno share finora ineguagliato. I suoi allestimenti d’opera sono spettacoli ad alta definizione tecnologica, popolari e comunicativi. Hanno l’opulenza visiva del cinema e l’attrattiva lisergica del concerto rock.«Sono un crossover vivente», dice di sé. Lo dimostra anche il fatto che ha in uscita un film (girato a quattro mani con Paolo Gep Cucco): The opera! Arie per un’eclissi,il 19 gennaio proiettato alla Scala, dal 20 al 22 gennaio nelle sale italiane, protagonisti Vincent Cassel, Fanny Ardant, Caterina Murino e i cantanti lirici Erwin Schrott, Valentino Buzza e Mariam Battistelli.Per giunta, quest’anno in apertura di stagione ha messo in scena a Genova ilGiro di vitedi Henry James alternato alla versione operistica di Benjamin Britten. D’altronde, spiega, «sono figlio artistico di Carlo Majer, indimenticato direttore artistico del Regio, di cui rammento l’impresa culturale d’aver creato con Luca Ronconi L’affare Makropulos di Leoš Janá?ek, con Raina Kabaivanska al Regio di Torino e il dramma originale di Karel ?apek con una formidabile Mariangela Melato, allo Stabile, negli stessi giorni».Maestro Livermore, a proposito di prodotti culturali che scavalcano i generi, Scala e Maggio fiorentino stanno preparando la versione operistica de “Il nome della rosa” e di “Romanzo criminale”, bestseller che sono già stati trasposti con grande fortuna anche su grande e piccolo schermo...«Sono sicuro che avranno successo pure sui palcoscenici d’opera».Evidentemente l’opera non è morta come tanti dicono.«Certo che è morta, un secolo fa. Perché il mondo che l’aveva generata è cambiato. Perché le sue modalità di scrittura non sono riuscite a stare al pari con il tempo che scorre. Ed è arrivato il cinema, che ne ha preso il posto. Ciononostante il Novecento ha prodotto opere straordinarie. Penso a Britten, uno dei pochi che non ha mancato l’appuntamento con la modernità. Eppure a lungo ha fatto fatica a entrare nei teatri italiani troppo ideologizzati da musicisti la cui ricerca artistica finiva per allontanare il pubblico».Comunque l’opera, intesa come spettacolo, ancora tiene botta.«Grazie alla musica, ai direttori, ai cantanti e ai registi che hanno mantenuto in vita il lascito della storia. La regia poi ha lavorato molto sul rinnovare la comunicazione di opere del passato. E di questo non possiamo che rammaricarci».Come mai?«Perché mi augurerei che prendesse forma una nuova Camerata de’ Bardi, il cenacolo che alla fine del Cinquecento creò il melodramma. Una Camerata declinata però al presente, che magari riuscisse aconnettere musicisti rock con poeti, videoartisti, ingegneri del suono, con la danza e la gestualità: l’opera è, per sua natura, una summa di arti. E le arti di oggi non sono le stesse del tempo di Verdi. Sogno che la programmazione di un teatro d’opera sia impostata su una progettualità a lungo termine e ambisca a riflettere sulla contemporaneità, parlando alla gente senza cedere al botteghino».Utopia.«Necessaria. Altrimenti trasformiamo l’opera in intrattenimento per turisti».Quindi “Il nome della rosa” alla Scala e “Romanzo criminale” a Firenze vanno nella giusta direzione?«Sono proposte astute. Il pubblico ha diritto di vedere rappresentato il nostro tempo tragico. Bisogna aprire crediti di intelligenza nei confronti delle persone, il che si può fare soltanto interrogandoci su quale sia la funzione del teatro d’opera e con quali tecniche debba effigiare il presente».Ha una risposta?«Mi faccio delle domande. Nelle opere nuove bisogna utilizzare soggetti conosciuti, affinché il pubblico possa seguire trama e libretto senza troppi sforzi, oppure osare? Ambientare le opere in Palestina o a Kiev, oppure in epoche passate? Come si può redigere un libretto essenziale ma icastico? Farlo in inglese – la scelta più facile – o in italiano? E in questo caso, con quale registro linguistico? Io vorrei osare al massimo. Grounded di George Brant, messo in scena al Teatro Nazionale di Genova, è servito anche come soggetto per un’opera al Metropolitan di New York, tratta del problema etico che si pone una top gun in guerra: finché vola sull’ F-16 non si cura della morte che causa dal cielo con asettica scientificità ma quando, incinta, viene assegnata al servizio a terra e guida droni che inquadrano i volti di chi deve uccidere, allora tutto per lei cambia».Eppure, lei ha portato in scena anche Fantozzi, uno spettacolo adesso in tournée italiana. Questa non è una proposta troppo facile?«No, “Fantozzi” è teatro filosofico e politico, fatto di situazioni, impostato, come la commedia dell’arte e la tragedia, sul corpo degli attori, sulla parola, sull’interazione con la musica. Dove si ride e si piange di noi, oggi».Un’ode alla vitalità del melodramma sembra essere il suo film in uscita a giorni, “The opera! Arie per un’eclissi”.«Crea un genere nuovo, l’opera-musical, con “canzoni” che vanno dal madrigale rinascimentale ad arie d’opera di epoche diverse. Parla del mito di Orfeo e su come l’arte aiuti a superare il dolore, a raccontare la morte, il distacco dall’anima».Andrà in streaming?«Probabile. Ma, come l’opera va vista in teatro, questo film è pensato per essere visto e ascoltato al cinema».