Corriere della Sera, 5 gennaio 2025
Il Louvre celebra Cimabue
Rivedere Cimabue, come suggerisce la mostra che si apre mercoledì 22 gennaio al Louvre di Parigi, è un modo per rendere giustizia a Cenni di Pepo detto (non si sa bene perché) Cimabue (Firenze, 1240 circa – Pisa?, 1301/1302), per molti «solo» il maestro di Giotto (ma anche su questo punto non ci sono certezze assolute). E, più in generale, per ridefinire l’intera storia dell’arte, proprio mentre prima il Metropolitan di New York (fino al 26 gennaio) e poi la National Gallery di Londra propongono con la mostra Siena: The Rise of Painting, 1300-1350 una rilettura delle origini della pittura che guarda piuttosto a Duccio, a Simone Martini, a Pietro e Ambrogio Lorenzetti che non (appunto) a Cimabue.
Spiega Thomas Bohl, curatore della mostra parigina (Revoir Cimabue. Aux origines de la peinture italienne, fino al 12 maggio), la prima che il Louvre dedica a Cimabue: «Gli anni 1280-1290 testimoniano un momento fondamentale, addirittura rivoluzionario, nella storia della pittura occidentale: per la prima volta un pittore cerca di rappresentare nelle sue opere il mondo, gli oggetti e i corpi che lo circondano così come esistono. Questo artista visionario, di cui non sappiamo quasi nulla e di cui ci sono pervenute solo una quindicina di opere, è proprio Cimabue».
Curioso è che la riscoperta di Cimabue sia, in fondo, frutto di un fatto di cronaca: il ritrovamento nel settembre 2019 nella cucina di un’anziana signora di Compiègne (piccolo comune a nord di Parigi) di un’icona che non era un’icona bensì La dérision du Christ, uno degli elementi del polittico con scene della Flagellazione di Cristo dipinto nel 1280 da Cimabue. La tavola, andata all’asta da Actéon con una base compresa tra i 4 e i 6 milioni di euro, era stata venduta per 24.180.000 a una coppia di collezionisti cileni, ma il governo francese l’aveva subito identificata come «patrimonio nazionale» impedendone l’esportazione. Il Cristo deriso sarebbe stato poi acquisito nel 2023 dal Louvre (proprio in quell’occasione Laurence des Cars, direttore generale del museo, aveva annunciato una mostra speciale su Cimabue per il 2025).
La mostra parigina celebra così l’acquisizione e il successivo restauro de La dérision du Christ e in parallelo il restauro anche della Maestà di Cimabue (1289 circa, tempera e oro su tavola) conservata sempre al Louvre e spesso riconosciuta come «l’atto di nascita della pittura occidentale». Questi due dipinti, il cui restauro si è concluso alla fine del 2024, costituiscono dunque il punto di partenza di un’esposizione che, riunendo una quarantina di opere, mira a mettere in luce la straordinaria novità della sua maniera e l’incredibile invenzione con cui rinnovò la pittura.
«Cimabue – spiega sempre il curatore Thomas Bohl – ha aperto la strada al naturalismo nella pittura occidentale. Con lui le convenzioni di rappresentazione ereditate dall’arte orientale, in particolare dalle icone bizantine, fino ad allora così apprezzate, lasciano il posto a una pittura inventiva, che cerca di suggerire uno spazio tridimensionale, corpi in volumi e modellati da membra sottili e articolate, gesti naturali ed emozioni umane, con una verve narrativa che fino ad ora pensavamo fosse stata iniziata dai suoi fiammeggianti successori, Giotto e Duccio».
La sezione introduttiva, dedicata al contesto pittorico tra Firenze, Pisa e Assisi della metà del Duecento, prefigura il quadro artistico in cui compare Cimabue. In cui quello che conta nell’apprezzamento di un’opera è la sua conformità ai grandi prototipi delle icone orientali, con i personaggi rappresentati come appartenenti al mondo sacro e che non intendono somigliare a esseri umani. È con questa modalità di rappresentazione che Cimabue intende rompere. Con la monumentale (4,27 metri per 2,8) Maestà del Louvre l’artista testimonia appunto la sua aspirazione a umanizzare le figure sacre e la sua ricerca illusionistica, in particolare nella resa dello spazio con il trono visto di profilo. Il restauro ha permesso, oltre a riscoprire la varietà e la finezza dei colori (tra cui la brillantezza prodigiosamente luminosa degli azzurri tutti dipinti in lapislazzuli), la riscoperta di numerosi dettagli nascosti dalle ridipinture che «offuscavano» notevolmente il fascino di Cimabue e dei suoi committenti per l’Oriente, sia bizantino che islamico, come il bordo rosso ricoperto di iscrizioni pseudo-arabe e il tessuto orientale che ricopre la parte posteriore del trono.
Il percorso prosegue con la sezione costruita attorno al dittico di Cimabue, di cui il Louvre riunisce per la prima volta gli unici tre pannelli finora conosciuti (gli altri due sono conservati alla National Gallery di Londra e alla Frick Collection di New York). La verve narrativa e la libertà mostrate da Cimabue in quest’opera dai colori cangianti, e in particolare ne La dérision du Christ, ne fanno un precedente della stupefacente Maestà di Duccio (1308-1311, Siena, Museo dell’Opera del Duomo): secondo Bohl «un piccolo pannello dall’inventiva prodigiosa che àncora la composizione alla quotidianità del suo tempo, osando vestire i personaggi con abiti dell’epoca, riecheggiando in qualche modo le preoccupazioni dei francescani, promotori di una spiritualità più interiorizzata e immediata».
Vasari parla di Cimabue come del primo pittore che si discosta dalla «scabrosa goffa e ordinaria maniera greca», Dante lo classifica come il maggiore della generazione precedente a Giotto. Pur concludendosi con le Stigmate di San Francesco di Giotto dal Louvre (1295-1300), la mostra parigina sembra in qualche modo riaprire i giochi: Giotto più grande di Cimabue o viceversa? Un’occasione per riaccendere i riflettori su un maestro (sulla naturalezza della sua modernità) che con le sue opere realizzate in un arco cronologico che va dal 1265 circa al 1302 (gli affreschi per la Basilica superiore di San Francesco ad Assisi, la Maestà di Santa Trinità oggi agli Uffizi di Firenze, il Crocifisso di Santa Croce sempre a Firenze e quello di San Domenico ad Arezzo) ha segnato l’inizio di un mondo (e di un’arte) nuovi. Con o senza Giotto.