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 2025  gennaio 05 Domenica calendario

Biografia di Francesco Vecchioni

Natale in casa Vecchioni non è ancora finit o. Due Babbi alti tre metri ci accolgono in giardino, per la gioia di Amelia e Adelaide, le splendide nipotine nate dalla figlia Carolina. «Ho altre due nipoti da Francesca, Nina e Cloe – racconta Roberto Vecchioni —. Sono gemelle ma molto diverse, una alta e bionda, l’altra piccola e bruna. Francesca è omosessuale, molto impegnata nella sua associazione Diversity. L’ho accompagnata due volte ad Amsterdam per l’inseminazione, ma non è andata bene. Poi è andata da sola, e ci è riuscita».
A Francesca lei dedicò una canzone molto bella e molto dura: «Figlia, figlia, non voglio che tu sia felice, ma sempre contro, finché ti lasciano la voce…». 
«Volevo dirle di non cercare scorciatoie, di non piegarsi al potere. Non l’ha fatto». 
Vorrei però domandarle di un’altra canzone. 
«Samarcanda?». 
Anche. Prima però vorrei chiederle come e dove nasce Luci a San Siro. 
«Nasce al Car». 
Centro addestramento reclute. 
«Alle casermette di Casale Monferrato. Luogo di una tristezza spaventosa. Due giorni prima di partire militare, lei mi aveva lasciato». 
«Tanto che importa, a chi la ascolta, se lei c’è stata o non c’è stata, e lei chi è?». Appunto: lei chi è? 
«Il primo vero amore. Siamo stati insieme quattro anni». 
Lei Roberto aveva già 24 anni, era già laureato, già cantautore. 
«Ma sono stato tardivo. Fino a diciassette anni, solo bacetti». 
La prima volta fu con la ragazza di Luci a San Siro? 
«No. Però erano stati amori casuali, neanche tanto piacevoli. Con lei fu la scoperta del sesso, un’emozione fortissima. Quando mi lasciò fu terribile. Mi pareva di aver perso l’unica donna del mondo». 
La prima versione del testo è durissima: «stupri, coiti anali», che poi diventano «sesso, prostituzione», infine «donne da buoncostume». 
«Non fu censura. L’ho voluto io, per rendere la canzone più vasta, più universale, meno incazzata». 
Torniamo al Car di Casale Monferrato. 
«Un ragazzo si sentì male in camerata. Nessuno sapeva cosa fare; io gli praticai la respirazione artificiale e lo salvai. Divenni un po’ l’idolo del gruppo. Erano tutti preoccupati per me, mi chiedevano: perché sei così triste?». 
E lei? 
«Avevo una chitarra, ma non riuscivo proprio a scrivere una canzone su un amore finito. Era un sentimento così forte, mi pareva che le parole non bastassero. Le notti non passavano mai, non dormivo in camerata ma al bar dei sergenti, anche se ero solo aviere semplice… Fu Orlandi a convincermi». 
Chi? 
«Un commilitone emiliano, noto perché dedito a sedute autosessuali pubbliche, insomma una vera bestia. Eppure si commosse per la mia storia, e mi disse una frase che ancora ricordo: “Tu devi fare questa canzone, perché questa canzone sarà per sempre”». 
L’ha scritta in caserma? 
«No, a casa, durante una licenza, su un tavolinetto rotondo, con le farfalle sotto il vetro. Cominciando dalla fine: il patto con Milano. Perché io, figlio di napoletani, amo Milano. In Luci a San Siro, Milano è una persona viva, cui propongo uno scambio». 
«Dammi indietro la mia 600, i miei vent’anni e una ragazza che tu sai…». Aveva davvero una 600? 
«Grigio topo. Targata 860399. Con i sedili ribaltabili. Non avevamo una casa o una stanza. La nostra alcova era Milano». 
Lo stadio? 
«Ma no! È quello che pensano tutti. Ma le luci di San Siro non sono quelle dello stadio, dove andavo a vedere la Grande Inter. Sono le luci che scorgevamo dalla montagnola di San Siro, quella innalzata con le rovine delle case bombardate. Andavamo là a nasconderci e a fare l’amore. E poi Settimo Milanese, Sesto San Giovanni, il laghetto di Redecesio vicino all’Idroscalo… strade bellissime, vicende fantastiche». 
Con Roberto e la sua ragazza sulla 600. 
«Una sera eravamo nel boschetto sui bastioni di Porta Venezia. La storia stava finendo. Lei mi disse di no, che non voleva più farlo, e uscì dalla macchina. Io mi gettai nella rincorsa, e mi trovai circondato dalle prostitute. Non mi ero mai accorto di loro. Mi presero a borsettate: “Porco, lasciala stare, ti ha detto di no!”. Me la diedi a gambe. Lasciai lì la 600, tornai a recuperarla il mattino dopo». 
Avevamo capito che fosse andata diversamente: «Ricordi il gioco, dentro la nebbia, tu ti nascondi e se ti trovo ti amo là. Ma stai barando, tu stai gridando, così non vale è troppo facile così…». 
«Quello era Orazio: “Nunc et latentis proditor intimo/Gratus puellae risu ab angulo”: e il riso agognato della tua ragazza/che viene dall’angolo più segreto a tradirla». 
L’ha mai più sentita? 
«Fa l’art director, mi ha telefonato una volta. È un ricordo pacificato. Il ricordo di un amore perduto, ma tutti hanno perduto un amore. Luci a San Siro è anche un’anticipazione, un atto di preveggenza di quel che sarebbe stata la mia vita, dominata dall’amore». 
Ma lei di Luci a San Siro scrisse anche un’altra versione: «Ho perso il conto di chi ho rimpianto…». 
«Per Rossano, un cantante che partecipava al Festivalbar del 1971: alla radio passavano cento canzoni, in finale arrivavano le prime venti. Rossano si qualificò come terzo. In tv però nessuno l’aveva mai visto, e lui peggiorò le cose cantando la prima sera con la barba, la seconda senza. In compenso spopolò un’altra canzone composta da me, e cantata dai Nuovi Angeli: Donna felicità. Il bello è che a quel Cantagiro c’ero pure io, con una terza canzone, La farfalla giapponese. Di cui non si accorse nessuno». 
Samarcanda invece come nacque? 
«Lessi un articolo di Antonio Ghirelli sul Giro d’Italia: “Francesco Moser ha trovato la sua fine a Samarcanda”. Non capii. La cosa mi incuriosì. Mio fratello mi mise in mano un libro, “Appointment in Samarra”, di John O’Hara. Non c’entrava nulla, era una storia d’amore. Ma nel frontespizio si citava una commedia di Somerset Maugham. Era più o meno la storia della canzone». 
Perché più o meno? 
«Il protagonista non era un soldato, ma un servo, cui il padrone tentava di salvare la vita. Ma l’originale è nel Talmud babilonese. Il re Salomone vede l’angelo della morte, lo trova triste, gli chiede perché. Lui risponde: “Devo portare via due persone, due tuoi servitori, e non li trovo”. Salomone fornisce ai servi due cavalli e li invita a scappare, nella città di Luz: dove però li attende la morte. Il giorno dopo, Salomone ritrova l’angelo, tutto allegro: “Grazie per aver mandato i tuoi servitori nella città in cui li aspettavo”. Una storia ripresa anche da Jean Cocteau, il poeta, e da Borges». 
Ma nella sua canzone la morte parla con il soldato, non con il re. 
«È una variante che ho trovato in Oriana Fallaci». 
Lei aggiunse «Oh oh cavallo!». 
«Quello è successo in macchina. Composi Samarcanda in autostrada, tra Milano e Bologna». 
E come la scrisse? 
«Non la scrissi, la cantai. Ho spesso composto canzoni in auto, mandandole a memoria: quando ho timore di perdere qualcosa, freno, accosto, e scrivo. Quel giorno, uscito dal casello, un tale davanti a me frenò di colpo. D’istinto gridai: “Oh, coglione!”. Ma subito divenne “oh, cavallo!”». 
Molti pensarono a una favola per bambini, invece era una canzone sull’ineluttabilità della morte. 
«Non sull’ineluttabilità; tutti sappiamo di dover morire. Quella semmai è Viola d’inverno: “Arriverà che fumo, o che do l’acqua ai fiori, o che ti ho appena detto: scendo, porto il cane fuori…”. Samarcanda è una canzone sulla perversità della morte. La sua cattiveria. Ispirata a mio padre Aldo. Proprio quando pareva guarito dal cancro, si aggravò all’improvviso, e morì». 
Suo padre torna in un’altra canzone, «L’uomo che si gioca il cielo a dadi». 
«Papà si giocava qualsiasi cosa. In montagna, con la scusa di far respirare aria buona ai figli, prendeva casa davanti al casinò di Saint-Vincent. Alla vigilia della maturità mi vide triste e mi portò cinque giorni a Parigi, a giocare ai cavalli a Vincennes, e poi a vedere Rosa Fumetto: ricordo quella donna stupenda, che passeggiava nuda su una rete distesa sopra di noi… La maturità comunque andò benissimo». 
Lei sta da quarantatré anni con la stessa donna, Daria Colombo. 
«Quando la vidi pensai: ma davvero esiste una creatura così? Non avevo mai visto una donna tanto bella in vita mia. La chiamai, le chiesi di uscire. Il mattino dopo la richiamai: “Vuoi uscire anche stasera?”. È stato un corteggiamento lungo. Una battaglia. Ma sapevo che era la mia compagna. Infatti mi ha salvato la vita, tante volte». 
Allude alle sue malattie? 
«Quello è niente. Prima di ogni operazione, al polmone, al rene, alla prostata, al cuore, lei mi ha sempre fatto coraggio, “cosa vuoi che sia?”. Sono sempre entrato in sala operatoria ridendo”. Ma alludo soprattutto ad altro. Agli errori che mi ha evitato, alla vicinanza nei momenti bui, a come mi ha sostituito quando non c’ero…». 
Avete anche perso un figlio, Arrigo. 
«Un ragazzo che non apparteneva a questo mondo: per discrezione, generosità, senso dell’umorismo. Era fantastico con i bambini. Vale per lui quello che ho scritto in una canzone per Van Gogh: “Questo mondo non si meritava un uomo bello come te”. Arrigo era un grande scrittore, ha composto poesie straordinarie. Ed era un grande interista». 
L’ha portato a vincere la Coppa dei Campioni a Madrid nel 2010. 
«Ho portato tutta la famiglia. Abbiamo chiuso un ciclo, aperto al Prater nel 1964. Anche allora c’ero». 
In una bella intervista a Walter Veltroni, lei disse di sentire ancora suo figlio dentro di sé. 
«È vero. Durante il giorno mi faccio forza, anche per mia moglie. Inoltre lavoro moltissimo ma qualche notte, quando Daria dorme mi ritrovo a piangere, lei non si dà pace e così è da oltre un anno. Non avevamo mai pensato al suicidio. La malattia mentale viene ancora affrontata come una vergogna; invece se ne deve parlare. Forse io e Daria scriveremo un libro. Un tempo io bevevo soprattutto superalcolici, lui soffriva nel vedere il suo papà, una persona importante, che si distruggeva così, di certo anche io ho le mie colpe». 
Ora non beve più. 
«Da dieci anni, proprio perché l’alcol mi distraeva dai figli. Ma ad Arrigo non è bastato. Non siamo riusciti a capirlo. Le forme bipolari sono aumentate con il Covid, lo stravolgimento dei rapporti umani ha fatto il resto, e l’assistenza sanitaria è gravemente insufficiente. Troppe famiglie vengono lasciate sole. È una battaglia che io e mia moglie vorremmo combattere». 
Lei crede in Dio, vero? 
«Sì, per almeno tre motivi. Il primo è scientifico. Il mondo non è perfetto. Dio ci ha cacciati dal Paradiso terrestre per darci il libero arbitrio, la libertà di sbagliare, l’imperfezione. Il cui alter ego è appunto la perfezione, il riscatto, la rivincita». 
Il secondo? 
«L’inspiegabilità delle emozioni. Sono certo che le emozioni non siano soltanto un fatto chimico, come tendono a pensare gli scienziati». 
E la terza prova dell’esistenza di Dio? 
«Il mondo è diviso in quello che c’è, e in quello che non c’è ancora. Dalla ruota al bosone, la scienza e la tecnica compiono scoperte, non invenzioni: trovano cose che c’erano già. La creazione artistica crea dal nulla. Dal nulla nasce la parola. Nell’arte umana c’è una scintilla divina». 
Come immagina l’aldilà? 
«Non ho prove, ma credo che saremo spiriti, capaci di essere felici. Perché capiremo che ogni cosa, anche l’alternanza di gioia e dolore, ha avuto un senso, è stata necessaria per esistere. Insomma, non è che possiamo stare sempre lì a ridere». 
È vero che siete amici con Francesco Guccini? 
«Ci siamo incontrati tanti anni fa a Sanremo, al Tenco. Lui mi fa: tu sei quello dello stadio che si illumina?». 
Vede? Anche Guccini pensava che Luci a San Siro si riferisse allo stadio. 
«Io risposi: e tu sei quello del trenino che si va a schiantare? Poi facemmo a gara a chi beveva di più. Lui aveva una bottiglia di bourbon, io di whisky. Le scolammo entrambe». 
Chi vinse? 
«Eravamo troppo ubriachi per stabilirlo». 
Sanremo è anche il festival. E lei, unico tra i cantautori storici, l’ha vinto. Come andò? 
«Sono sempre stato amico di Gianni Morandi. Andavamo anche in vacanza insieme, a Gallipoli e pure in Libia, quando c’era ancora Gheddafi… Nel 2010 Morandi comincia a rompermi le scatole: l’anno prossimo il festival lo faccio io, e tu devi portare una tua canzone. Il problema è che la canzone non l’avevo». 
E poi? 
«Ero in hotel a Roma. Angosciato per quanto accadeva nel mio Paese. Era arrivata la grande crisi finanziaria dall’America, molti operai perdevano il lavoro, il governo Berlusconi non era all’altezza. Il portiere napoletano mi disse: “Adda passà ‘a nuttata”. In ascensore ho tradotto: “Questa maledetta notte dovrà pur finire…”. In camera l’ho scritta. Alle 4 del mattino ho chiamato il mio arrangiatore per cantargliela. Poi ho telefonato a Morandi: “Gianni, ho la canzone per Sanremo”. Cominciai a sognare di vincerlo». 
Nel sonno? 
«No, a occhi aperti. Come un bambino. Immaginavo di ricevere un’ovazione a Sanremo e di vincerlo clamorosamente. Arrivai al festival, provai la canzone, poi andai al ristorante, mezzo vuoto. Ma dopo la prima serata in cui avevo cantato “Chiamami ancora amore” – con addosso una paura terribile, perché non si ha idea della paura che ti mette Sanremo —, fuori dallo stesso ristorante c’erano duemila persone ad aspettarmi. Capii che il sogno si stava avverando». 
Perché la sinistra in Italia perde sempre? 
«Perché la destra è una via dritta; la sinistra ha mille idee, molto diverse. Diceva Bobbio che la destra è stringere, la sinistra è allargare. Da noi però si allarga un po’ troppo». 
Quante canzoni ha scritto? 
«Almeno trecento; e ognuna racchiude un ossimoro, ognuna ha il suo mistero. Più dieci romanzi. L’anno prossimo Einaudi pubblica tutte le mie poesie: ne scrivo da quando avevo otto anni, le ha tenute mia madre Eva. L’altra sera non riuscivo a dormire, sono andato a bere un po’ d’acqua, e in dieci minuti ho scritto una lirica di otto versi». 
La regala ai lettori del Corriere, come augurio per il 2025? 
«La luce confonde 
I colori sono 
la scempiaggine di Dio 
La verità è nel buio 
Una scintilla inavvertita 
un microsecondo 
un rombo 
non udibile».