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 2025  gennaio 04 Sabato calendario

Intervista a Marina Tagliaferri

«Era il 1977. Avevo fatto un provino, con altri attori, per l’Edipo Re che Vittorio Gassman stava preparando per una versione televisiva in Rai. Dopo qualche giorno, squilla il telefono a casa, io ero uscita e risponde mia madre che sente una voce profonda e seriosa chiederle: “Buongiorno, c’è Marina Tagliaferri?”. Mamma ribatte: “Chi la desidera?”. “Sono Vittorio Gassman...”. E mia madre, abituata agli scherzi telefonici, dice: “Sì, vabbè... mi dica veramente chi è”. E lui, seccato, ripete: “Signora, sono Vittorio Gassman”. Pausa, silenzio... Ma quando torno a casa, trovo mamma in fibrillazione che, balbettando, riesce solo a spiccicare il nome del grande attore. Ovviamente, capisco il motivo di quella telefonata e le chiedo: che ha detto? E lei emozionata: “Ha detto sì!”. “Cioè?”. “Che ti prende per lo spettacolo!”».
Una lunga avventura artistica iniziata in teatro, quella dell’attrice romana, che da molti anni è tra i protagonisti storici della celebre serie-tv Un posto al sole. Un percorso che ha recentemente raccontato nella sua autobiografia, Un posto in scena (Giulia Giannini editrice).
Perché ha sentito la necessità di raccontarsi in un libro?
«Non era una vera necessità, piuttosto la risposta a una mia riflessione e cioè che noi siamo i protagonisti di noi stessi e la memoria che costruiamo è l’unica chiave per leggere il futuro: senza memoria non c’è futuro, così ho ricostruito i miei ricordi, per capire che cosa potrà poi avvenire».
Allora partiamo dal passato remoto. Da quando nasce la passione per il teatro?
«Alle elementari: ho iniziato a recitare a scuola, dalle suore, che avevano un teatrino. Le recite le facevano fare sempre alle prime della classe, cosa che io non ero per niente. Però quella volta succede che condividevo il banco con una compagna bravissima, voti alti in tutte le materie, alla quale avevano proposto di essere protagonista di uno spettacolino. A lei non gliene importava proprio nulla di recitare, a me interessava molto: torno a casa, metto a soqquadro gli armadi, finché trovo il vestito della prima comunione di mia cugina. Il giorno dopo mi presento davanti alla madre superiora e le dico: io ho l’abito giusto per fare la recita, che facciamo? Debuttai nel ruolo della regina nella Bella addormentata nel bosco».
L’avventura era appena iniziata...
«A 13 anni volevo già entrare all’Accademia d’arte drammatica, ma ovviamente mi risposero che per accedere era necessario il diploma della scuola superiore. Ci rimasi un po’ male e abbandonai il progetto...».
Per questo, dopo qualche tempo, dirottò i suoi interessi nei confronti dell’Isef? Una roba completamente diversa...
«Questo interesse fu il frutto del mio primo amore adolescenziale: Enrico, un bel ragazzo, un vero atleta e, per stare con lui, decido di immergermi nella preparazione sportiva necessaria per accedere al bando di concorso. Nel frattempo prendo il diploma di ragioneria e finisce pure la storia con Enrico. I miei genitori, come regalo per il buon risultato scolastico, mi mandano a Parigi con una cara amica che un giorno mi chiede: perché, quando parliamo di quello che faremo in futuro, tu mi ripeti la tua passione per il teatro? Che c’entra l’Isef col teatro? Aveva ragione, stavo sbagliando strada. Tornata a Roma, comincio a prepararmi per entrare alla Silvio d’Amico. Quando lo comunicai a mio padre, rimase attonito...».
E allora?
«Allora, si appoggiò allo schienale della sedia e si limitò a esclamare: “Credo che tu sia un po’ pazza”. In effetti, ci vuole un po’ di follia per scegliere il mestiere d’attore. Tant’è, ma superai la prova e venni ammessa all’Accademia».
Tra i vari insegnanti, chi ricorda con maggiore affetto?
«Bè, Andrea Camilleri. È stato un privilegio averlo come maestro di recitazione. Come non ricordare la sua ironia, la sua forza di comunicazione, ed essendo un gran fumatore, le nuvole di fumo che lo circondavano, aggiungendo alla sua voce profonda un fascino di simpatia. Ironizzava su tutto con quel suo “dire” siciliano che tanto ci piaceva ascoltare. Si creò una bellissima simbiosi, condivideva molto con noi studenti, anche cose della sua vita. Un giorno, ci parlò di certi suoi racconti che aveva scritto e ci descrisse quei suoi personaggi, ambientati in una Sicilia antica, con un calore tutto particolare. Poi aggiunse: “Sì, ne ho scritti tanti, ma chissà se li leggeranno mai, sono chiusi in un cassetto”. Quel cassetto si è aperto e tutta l’Italia ha potuto godere della sua arte e le sue opere sono state tradotte in trenta lingue. Quando esplose il successo di Montalbano, eravamo tutti suoi fan sfegatati».
In quel periodo, nasce pure un secondo amore, con Massimo Ghini...
«Verissimo... me lo avevano presentato, lui comincia a corteggiarmi, prende il via una nostra frequentazione e, siccome mentre frequentavo l’Accademia mi dilettavo a fare anche filodrammatica con un gruppo di amici e amiche, lui mi accompagnava alle prove. Una volta mi dice sorpreso: ma questo è il teatro? Divertente! Così, anche lui, che in realtà faceva l’animatore nei villaggi turistici, comincia a preparare la sua carriera d’attore».
Ancora oggi siete molto amici, si diverte a chiamarla la Sora Cecioni. Perché?
Ride: «Sì, il celebre personaggio della mitica Franca Valeri... Per quale motivo? Innanzitutto sono romana de Roma e poi un po’ tutti mi chiamavano così, perché durante le tournée avevo sempre con me una borsa con dentro di tutto. Se serviva qualcosa a un collega, gli suggerivano: chiedi alla Sora Cecioni..».
E la Sora Cecioni calca le scene con grandi maestri...
«Il primo in assoluto, Carmelo Bene, che nel 1974 mi volle nella sua personalissima interpretazione e riscrittura dell’Amleto, da Shakespeare e da Laforgue, nel ruolo di Rosencrantz in una versione femminile. Lui era un uccello notturno. Quando arrivai il primo giorno di prove al Teatro Quirino di Roma, mi resi subito conto che quello che stavo per affrontare non era esattamente ciò che mi aspettavo. A partire dall’orario delle prove: inizio ore 21, fine ore 6 del mattino. Pensai di aver letto male, invece era proprio così».
I suoi genitori erano preoccupati?
«Effettivamente, un po’ sì. Tanto che mio padre mi disse: “Oggi la mamma ed io vorremmo venire al Quirino, per conoscere questo signor Bene, dato che nostra figlia partirà con la sua compagnia”. In parole povere voleva essere sicuro che fosse una persona “per bene”, cognome a parte. Io ero veramente imbarazzata, mi vergognavo come quando un genitore accompagna a scuola la figlia adolescente e lei non vuole farlo vedere ai compagni. Non ero adolescente e comunque papà difficilmente cambiava idea, così lo presentai a Carmelo, mentre mia madre, paziente come sempre, lo affiancava in quella buffa impresa».
Come reagì il maestro?
«L’espressione di Carmelo fu tra lo stupito, il preoccupato e l’incredulo. Però devo ammettere che mi sorprese. Assunse un atteggiamento quasi paterno e, rivolto a mio padre, lo rassicurò: “Non si preoccupi, signor Tagliaferri, sua figlia è in buone mani”. Aggiungo che da lui ho imparato tanto, anche se non era tipo da mettersi in cattedra, non insegnava, dovevi apprendere da quello che faceva, da come si manifestava in scena».
Da così tanto autorevole teatro, a cosa fu dovuta la conversione alla soap opera?
«Un posto al sole rappresenta una sliding door importante. È abbastanza normale che noi attori partecipiamo a provini di vario genere in diverse produzioni. Uno dei produttori della fiction in questione, casualmente, vede il materiale da me inviato e afferma perentorio: questa attrice la voglio. La serie doveva durare 9 mesi, invece va avanti da 28 anni».
Il suo personaggio, Giulia Poggi, è un’assistente sociale, inoltre è una madre di due figli...
«Ovviamente non ho mai fatto l’assistente sociale e non ho mai avuto figli. Giulia mi fa vivere tutta la parte di vita che non ho vissuto privatamente, cioè la maternità, sia pure per finta. Come mi sono trovata nel doverla interpretare in tutti questi anni? Bisognerebbe chiedere a Giulia Poggi come si è trovata con Marina Tagliaferri...».
Nella realtà non ha figli, però ha avuto e continua ad avere cagnolini. L’ultimo, Bricca, è riuscita a farla recitare, da tre anni a questa parte, nella fiction. Com’è stato possibile?
«Bricca la porto sempre con me ovunque, ma avevo avuto problemi a farla entrare in Rai sul set di lavorazione, così una volta, scherzando, ho lanciato una piccola provocazione ai produttori: non la potete scritturare? Gli autori mi hanno preso sul serio: Bricca piaceva perché non è un cane di razza, inoltre è di età avanzata e, nella storia, viene accolta dalla nostra famiglia Poggi proprio perché è stata abbandonata... Io sono un’animalista e questo è un bel messaggio di civiltà da trasmettere al pubblico. Da allora è diventata una star: non possono chiederle gli autografi, ma la richiesta di selfie è assicurata».
Non le manca il palcoscenico?
«Mi mancano gli applausi a scena aperta, una vera e propria droga per noi attori: è come se improvvisamente tutti gli spettatori presenti in sala dicessero insieme “ti vogliamo bene”. Una sensazione bellissima e, come diceva Giorgio Albertazzi, con cui ho avuto l’onore di recitare, l’applauso è un rapporto erotico col pubblico. In tv, ovviamente, non c’è, ma è stato sostituito dai mille abbracci fisici che riceviamo incontrando i nostri fan. Il nostro non è divismo, siamo considerati di famiglia e l’affetto che ci viene dimostrato è sincero».
Abbiamo iniziato dalla memoria, che serve a capire cosa ci attende nel futuro. Come immagina il suo domani?
«Vorrei aprire la porta e, avendo ormai 71 anni, trovare il “copione” della mia terza età!».