La Stampa, 3 gennaio 2025
Intervista a Giuseppe De Rita
La necessità di riforme strutturali, di recuperare lo spirito corale che ha permesso la ricostruzione dell’Italia nel dopoguerra. La necessità soprattutto di riprendere a sperare, è l’augurio che arriva da Giuseppe De Rita, sociologo, tra i fondatori del Censis di cui è stato a lungo presidente.Nel suo discorso il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha elencato le difficoltà dell’Italia. Un lungo elenco.«Il presidente della Repubblica ogni anno cita tutti i problemi, dai migranti agli anziani. L’elemento nuovo quest’anno è stata l’affermazione che la speranza siamo noi. Mi piace molto perché ci invita a renderci conto che la speranza non arriva da una stella di Natale, siamo noi a doverla creare».La speranza è proprio quello che manca negli italiani come emerge anche dalle ultime analisi del “suo” Censis. È quello che frena, per esempio, nella scelta di fare figli e che rappresenta uno dei fattori di maggiore criticità per il futuro economico dell’Italia.«Come ricorda anche il presidente Mattarella, avere un figlio è un grandissimo gesto di speranza nel futuro, una dilatazione del cervello che ci porta a immaginare che quel piccolo tra trent’anni sarà un uomo o una donna. Io ho avuto otto figli in anni non facili, quelli delle grandi crisi, degli scioperi, dell’inizio del terrorismo eppure per la mia generazione la speranza era un atto quotidiano, ora non più».Come può un Paese ritrovare la speranza?«Attraverso una sorta di autocoscienza collettiva. Il nostro Paese ha una linea di galleggiamento fissa, non conosce punte estreme di grande sviluppo né crolli profondi durante le crisi. Attraverso questa linea di galleggiamento si esclude la possibilità di fare grandi programmi, una situazione molto triste che però è compensata dal fatto che riusciamo a superare i momenti di crisi come è accaduto durante il Covid o nell’affrontare la crisi legata all’inflazione riuscendo comunque a reggere».E ora?«Ora si tratta di vedere se abbiamo coscienza di questa realtà e quindi se sceglieremo di aspettare ancora una volta e di capire se riusciremo a superare anche la prossima crisi oppure se si vuole finalmente fare un discorso strutturale e affrontare le antiche criticità che ci portiamo dietro da anni. Affrontandole non con una legge di bilancio ma con riforme capaci di incidere in maniera profonda».Quali sono queste criticità?«Dal mio punto di vista la più seria è logistica. Siamo un Paese che ha grandi capacità di sviluppo, di esportazione, di importazione, di consumo, ma la rete logistica è debole. Un terzo del Paese si trova in zone isolate, appenniniche e montane dove non si arriva. Questo fa sì che ci sia un pezzo di Italia non inserito nella realtà quotidiana».E le altre?«La seconda criticità è legata alla scarsezza della cultura tecnico-scientifica medio alta. Nel dopoguerra lo sviluppo è stato realizzato da periti industriali, ragionieri, geometri. Dagli anni Settanta in poi la politica scolastica ha privilegiato la quantità e la genericità della formazione, un errore che ha portato a una penalizzazione della specializzazione dei nuovi laureati, a un aumento degli anni di formazione formale di istruzione ma non della professionalità. Abbiamo sbagliato e le conseguenze sono evidenti nel fatto che i nostri giovani più specializzati sono dovuti andare all’estero invece che restare in Italia. La terza criticità è legata al fatto che l’aumento indiscriminato della cultura universitaria non si è trasformata in una seria politica della ricerca moderna, applicata, concreta».L’Italia del 2025 avrà un problema di non poco peso, l’aumento della povertà. Come affrontarlo?«Fare un discorso sulle disuguaglianze e gli squilibri sociali, sottolineare che i poveri italiani sono un certo numero è del tutto indifferente alla dinamica di questo Paese. È un discorso che può andare bene per chi fa una politica populista. Per chi fa ricerca e si occupa di economia è più utile concentrarsi su come mettere in campo le risorse per attivare quella capacità italiana di andare oltre, di superare ogni difficoltà che abbiamo dimostrato dal dopoguerra in poi e che è una vera e propria benedizione per il nostro Paese ma che spesso viene vissuta come un arrangiamento, un galleggiamento. Il problema di avere tanti poveri o un aumento degli squilibri si risolve creando sviluppo ma per fare sviluppo sarebbe necessario uno sforzo politico che inneschi una cultura collettiva diversa da quella attuale».Che cosa chiede alla politica?«Abbiamo visto che i bonus hanno creato più squilibrio che equilibrio. Il superbonus 110% ha portato benefici a chi aveva già una casa e poteva anticipare soldi finendo per aumentare le differenze esistenti. Credo che sia necessaria, invece, una riflessione collettiva più profonda. Quello che conta è che ora questo Paese dimentichi quello che è stato fatto in questi ultimi venti anni di populismo e attui un ragionamento profondo sul sistema nel suo complesso».In che modo?«Non dobbiamo dare solo una risposta immediata alle crisi, abbiamo bisogno di una lenta preparazione culturale e politica che ci permetta di concentrarci come nel dopoguerra su alcuni soggetti da sostenere per innescare un processo di sviluppo economico».Insomma un ritorno allo spirito che ha portato l’Italia a ricostruire il Paese?«Sarà perché ho 92 anni ma sono nostalgico di quel periodo in cui furono approvate leggi sulla ricostruzione delle case, sul sostegno alle piccole e medie industrie e sulle industrie a partecipazione statale che rappresentarono un’importante opera di promozione di una società che voleva crescere. È necessario recuperare quello spirito e smetterla di restare prigionieri di schemi mentali superati e individuare invece nuove soggettività da sostenere con interventi mirati altrimenti temo che si perda la possibilità di far ripartire lo sviluppo economico dell’Italia. Il vero incarico che ha chi come me fa ricerca oppure chi fa politica è di sostenere, individuare e indirizzare il processo di sviluppo, altrimenti facciamo soltanto lamento». —