la Repubblica, 3 gennaio 2025
Intervista a Enrico Ruggeri
«C’è più musica live da noi che in tanti concerti». Enrico Ruggeri è tornato in tv a raccontare storie di musica e non solo. Nel suo programma Gli occhi del musicista(fino al 4 febbraio su Rai 2 in seconda serata), sua seconda edizione, lui e Flora Canto sono affiancati da una band che suona dal vivo. A differenza della prima edizione, non si racconta un solo artista a puntata ma vengono trattati argomenti di vita comune, dai figli alla guerra, dalle grandi rivoluzioni, musicali e non, allo sport. Il 17 gennaio Ruggeri pubblicherà il suo nuovo album di ineditiLa caverna di Platone.
Un nuovo capitolo della sua avventura in tv: è difficile portare la musica dal vivo nei palinsesti?
«La scelta è stata quella di suonare totalmente del vivo, chi viene ospite lo sa. Sembra una rivoluzione, dovrebbe essere la normalità. Nella prima puntata abbiamo raggiunto il 6.8 % di share, vista l’ora è un piccolo miracolo. Evidentemente è una formula che funziona».
La sua sembra sempre più una funzione da divulgatore. Renato Zero sostiene che un grande problema dei giovani, artisti e non, è che spesso non si confrontano con i capolavori della nostra canzone.
«Dal punto di vista numerico è vero.
Ma dovremmo smetterla di pensare per numeri: una parte di giovani ascolta miserie lessicali totali, altri vanno anche ai nostri concerti.
Magari sono di meno, ma esistono».
Il suo nuovo disco si intitola “La caverna di Platone”. È un modo anche per sottolineare le difficoltà culturali dei tempi che viviamo?
«Sì, il mito può essere una metafora del presente: Platone immaginava gente che viveva in una caverna e si convinceva che quella era la realtà.
Una volta usciti, preferivano rientrare perché quello che trovavano fuori non gli piaceva».
Il dibattito culturale in Italia si trasforma sempre più in un duello destra-sinistra. Ha raccontato che ai tempi del liceo Berchet a Milanosubiva una sorta di egemonia culturale. Lei è di destra?
«Ho alcune idee che a volte collimano con la sinistra, altre con la destra. Sono perplesso sul proibizionismo, su Gaza, su altri temi di attualità. Un uomo libero dovrebbe comportarsi così».
Che ne pensa del caso Tony Effe?
La libertà di espressione artistica va comunque salvaguardata?
«Sogno un futuro in cui a vedere Tony Effe non ci va nessuno. In giro c’è grande povertà intellettuale, lessicale. Vedo però che per certa musica c’è una richiesta enorme.
Non esiste censurare, ma bisognerebbe agire con onestà intellettuale: andrebbe difeso anche Povia. Poi c’è la sprovvedutezza degli organizzatori: prima chiami un artista e poi lo mandi a casa. Ovvio che venga fuori un casino».
Parlando di linguaggio, che idea si è fatto delle canzoni di questi ultimi anni?
«Mi pare si usi un linguaggio minimale. Il grande equivoco sta nel fatto che il problema non è l’argomento trattato, ma come viene raccontato. Sul problema dell’ostilità sociale Dostoevskiji ha scritto Delitto e castigo.Oggi discutiamo dei crimini delle baby gang, ma Oliver Twistparlava di quello. Il vero nodo è la pochezza del linguaggio. Lou Reed ha frugato nei lati più scuri dell’animo umano, ma ha scritto capolavori».
A proposito di Lou Reed: lei ha scritto “Forma 21” dedicandola proprio a lui, che ebbe vicino Laurie Anderson fino all’ultimo istante. In alcune canzoni sembra aver timore della solitudine nel momento della fine.
«Il timore di morire da solo ce l’hanno tutti. Ci si chiede dove saremo, chi avremo vicino. È un pensiero che non puoi rimuovere. Mi è capitato di assistere agli ultimi istanti di diverse persone: sui loro volti ho visto un’espressione di stupore. Credo sia normale chiedersi cosa vedono».
Nel nuovo disco c’è “Il poeta”, dedicata a Pasolini.
«È una dedica a tutti quelli che seguono il libero pensiero, consapevoli che qualcuno prima o poi li attaccherà. Lui è un emblema di chi non ha paura di manifestare il proprio pensiero, anche se sa che i suoi seguaci resteranno delusi.
Pasolini è un po’ come Gaber, gli attacchi più forti alla sinistra sono arrivati da sinistra».
Ci sono canzoni in cui accenna a suo padre, soffriva di depressione.
Che rapporto ha avuto con lui?
«Era un uomo disturbato, non è stato un rapporto facile. Un’intelligenza buttata via, non ha mai lavorato, ha prosciugato risorse per tre o quattro generazioni. Di questo però lo ringrazio, se fossi nato ricco non avrei avuto la stessa rabbia. Resta il rimpianto su come mi sono comportato. Gli sono stato abbastanza vicino? Non gli ho chiesto tante cose, questa incompiutezza mi crea malessere».
Oggi si sente più un testimone di un’epoca o un narratore?
«Le due cose si sovrappongono: il narratore pretende di aggiungere poesia a quello che racconta.
Testimone di un’epoca lo sono, ma senza entrarci troppo dentro. Io penso sempre a quanto potrà durare una canzone: il narratore non deve raccontare solo la cronaca. È un po’ il limite dei rapper».