La Repubblica, 3 gennaio 2025
In fuga da Cuba
Non molto tempo fa la Plaza de la Revolución dell’Avana era colma di turisti americani che sgomitavano per assicurarsi un selfie con l’iconica immagine del Che Guevara o cercavano di non farsi soffiare un giro su una Chevrolet Bel-Air rossa del 1952. Oggi quelle scintillanti decappottabili americane anni ’50, simbolo dell’essenza cubana, restano vuote. I turisti che un tempo scarrozzavano sono in gran parte scomparsi e gli autisti spendono le loro giornate come fa la maggior parte degli altri cubani: affrontando lunghi blackout, facendo la fila in supermercati mal forniti di merce e guardando amici, familiari e vicini – stanchi delle difficoltà – fare le valigie e lasciare l’isola.
Dieci anni fa il presidente americano Barack Obama aveva sconvolto il mondo ristabilendo le relazioni diplomatiche con Cuba, ponendo fine a oltre 50 anni di isolamento eredità della Guerra Fredda tra gli Stati Uniti e un Paese con cui Washington era stata sull’orlo di una guerra nucleare. Per due anni e mezzo, Cuba fu invasa dall’entusiasmo portato da un’ondata straordinaria di investimenti e turismo, e alimentato anche dagli accordi firmati con grandi aziende americane come Google, AT&T e la Major League Baseball. Ma un tracollo finanziario provocato da una serie di fattori – l’inasprimento della politica statunitense da parte dell’amministrazione Trump, la cattiva gestione economica di Cuba e l’effetto devastante della pandemia di Covid – ha allontanato i turisti e provocato un esodo migratorio di proporzioni epiche.
Il turismo, un tempo linfa vitale dell’economia cubana, è crollato, diminuendo di quasi il 50% dal 2017, con nuove restrizioni sui visti americani che rendono più difficile visitare l’isola persino per gli europei. «La differenza tra allora e oggi è letteralmente il giorno e la notte», afferma Luis Manuel Pérez, un autista. Ex professore di ingegneria, Pérez, 57 anni, una volta aveva una clientela costante che pagava 40 dollari l’ora per un giro in auto d’epoca. Ora è fortunato se riesce ad avere un cliente al giorno.
Le migliaia di attività private autorizzate negli ultimi anni dal governo cubano ora cercano di sopravvivere dopo aver perso molti lavoratori migrati all’estero. Le strade sono piene di rifiuti in quanto la carenza di carburante ostacola la raccolta della spazzatura. Tanti cubani lo dicono chiaramente: dieci anni fa c’era speranza. Ora c’è disperazione. «Esci per strada e i sorrisi delle personestanno svanendo», conferma Adriana Heredia Sánchez, proprietaria di un negozio di abbigliamento nella Vecchia Avana.
Il declino di Cuba mette a nudo il ruolo sproporzionato degli Stati Uniti nel Paese, proprio mentre Donald Trump si prepara a tornare alla Casa Bianca: il presidente eletto ha nominato Marco Rubio, senatore repubblicano della Florida apertamente critico di Cuba, come segretario di Stato. Stando a diversi indicatori, Cuba sta affrontando la sua crisi peggiore da quando Fidel Castro prese il potere 66 anni fa, superando perfino gli anni ’90, quando il crollo dell’Unione Sovietica lasciò l’isola orfana del s uo principale sostegno.
Da ottobre Cuba ha sopportato tre blackout nazionali. I dati ufficiali mostrano che la popolazione è diminuita di almeno un milione di persone, il 10% del totale, dalla pandemia ad oggi. Più di 675.000 cubani si sono trasferiti negli Stati Uniti. Anche il tasso di mortalità infantile, che il governo comunista era così orgoglioso di aver abbassato a livelli inferiori rispetto agli stessi Usa, ora è in aumento. Cuba, uno dei pochi paesi dell’America Latina lodato per aver eliminato la malnutrizione infantile, oggi fatica a consegnare puntualmente nei negozi statali le razioni di latte per i bambini e alimenti di base come riso e fagioli, sempre che arrivino.
Il senso di miseria è lontanissimo da quell’eccitazione provata nel 2016, quando l’allora presidente Obama assistette a una partita di baseball all’Avana con il leader cubano Raúl Castro. «Se Obama si fosse candidato a presidente a Cuba, sarebbe stato eletto», dice ridendo Jaime Morales, una guida turistica della capitale. Obama aveva anche allentato la politica statunitense verso l’isola, consentendo alle navi da crociera americane di attraccare a Cuba, aumentando i voli e permettendo a più americani di visitarla.
Poi Trump ha invertito la rotta. Nel 2018, dopo le misteriose malattie che colpirono i dipendenti dell’ambasciata Usa all’Avana, che alcuni attribuirono a un attacco di una nazione ostile, rimandò a casa così tanto personale da chiudere di fatto l’ambasciata (poi riaperta da Biden nel 2023). Negli ultimi giorni del suo primo mandato, Trump ha anche reinserito Cuba nella lista degli Stati sponsor del terrorismo – una designazione che limita drasticamente la capacità dell’isola di fare affari a livello globale – mantenuta poi da Biden. La repressione delle proteste popolari del 2021 ha lasciato centinaia di persone in prigione, rendendo più difficile per Biden giustificare l’allentamento delle restrizioni.
Il governo cubano ha recentemente affermato che il breve riavvicinamento di Obama è stato positivo, ma è stato seguito da otto anni di aggressione. José Ramón Cabañas Rodríguez, primo ambasciatore di Cuba a Washington dopo la riapertura delle ambasciate nel luglio 2015, ha dichiarato che gli Stati Uniti sono responsabili delle difficoltà di Cuba. L’incapacità di mantenere la rete elettrica stabile è direttamente legata alle sanzioni statunitensi, ha detto. «Abbiamo vissuto altri periodi simili, spesso legati a politiche ostili degli Stati Uniti», ha aggiunto.
Tuttavia molti cubani sono stanchi del fatto che il loro governo dia la colpa di tutto a Washington. «A Cuba è sempre stato difficile, ma il punto non è che ora c’è meno, il punto vero è che non c’è proprio niente», spiega Arianna R. Delgado, una truccatrice emigrata quest’anno a Miami. Rubén Salazar, 58 anni, aggiunge: «Non c’è vita qui. I cubani non hanno futuro».
In una farmacia nel quartiere Vedado, all’Avana, vengono distribuiti 200 biglietti numerati il giorno prima della consegna delle medicine. Di conseguenza, le persone devono fare una fila che dura diverse ore non u na, ma due volte. «Spesso le medicine finiscono prima di arrivare al numero 200», dice Maritza González, 54 anni, assistente scolastica, che ha bisogno di un inalatore per l’asma. È riuscita a trovarne uno solo una volta quest’anno. «A volte finiscono prima di arrivare al numero 50». Il suo numero è il 136.