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 2025  gennaio 02 Giovedì calendario

Mussolini in aula nell’ora più buia (prima e seconda puntata)


Nel pomeriggio del 3 gennaio 1925 l’aula di Montecitorio è gremita. Ci sono tutti e tutti attendono l’evento: la caduta del fascismo.
Come a teatro, nel loggione e sui palchi riservati al pubblico si affollano centinaia di giornalisti, membri della corte, del clero, della borghesia e del popolo romano. Folti drappelli di squadristi torvi, armati e vocianti attendono, invece, un segnale: il solito, ancestrale, risaputo segno nero della violenza assassina. Giù nell’emiciclo, i banchi sono zeppi dal centro fino alla destra estrema. Nessun deputato governativo manca – cattolici, liberali, monarchici, fascisti – un istrice fitta, un basso continuo di grida, di “evviva”, di inni. Oggi nel Parlamento d’Italia si scherza, si urla, si canta ma nessuno parla.
Il tumulto tace solo lì sulla sinistra, tra i banchi lasciati ostinatamente vuoti dai parlamentari dell’opposizione secessionista che da mesi, sciaguratamente, invece di presidiarla con tenacia combattiva, disertano l’aula per protesta contro l’uccisione di Giacomo Matteotti, assassinato da sicari fascisti rei confessi mandati dalla cerchia di Mussolini. Soltanto in quel punto una piccola pozza di nulla traccia una crepa di vuoto necrotico nella ottusa compattezza di individui da tempo scaduti a massa. Ma, a ben guardare, in questo pomeriggio d’inizio anno, nell’aula di Montecitorio, nascosti tra il pubblico delle logge, ci sono anche loro: gli antifascisti.
Nessuno manca in questo pomeriggio da epilogo tragico. Sono tutti qui, quasi tutti convinti che il fascismo sia finito e tutti, senza eccezione, con un occhio sorvegliano inquieti le bande di violenti in agguato sugli spalti estremi e con l’altro mirano all’imminente ingresso del fondatore, del “Duce”, di Benito Mussolini da Predappio. Alla fine come in principio a questo si riduce il fascismo: un capo e una banda di uomini in armi.
Si vocifera che “Lui” sia accasciato, umiliato dalla raffica che lo ha investito, prossimo al collasso. Da quando, nell’agosto precedente, il cadavere scempiato di Giacomo Matteotti è stato ritrovato in un macchione della campagna romana, il giovane leader del fascismo,idolatrato fino al giorno prima come salvatore della Patria, si è trasformato in un reietto. Da mesi Benito Mussolini trascorre le sue giornate macerandosi nella solitudine del suo gigantesco ufficio a Palazzo Venezia, fino a ieri affollato da una pletora di ammiratori entusiasti, politicanti pronti a ogni compromesso, questuanti di ogni sorta e femmine adoranti.
Per anni la violenza fascista è stata subita personalmente da alcuni, esercitata da pochi, tollerata da molti, desiderata come miracolosa soluzione a ogni problema da troppi. Poi, d’un tratto, il barbarico assassinio dell’ultimo leader capace di opporsi a viso aperto alla dittatura fascista ha ridestato dal complice torpore la coscienza nazionale.Un’onda di ribrezzo ha percorso il Paese e Benito Mussolini è diventato un appestato in bilico sull’orlo della fossa, in attesa che il Re, le opposizioni, il popolo inorridito o una congiura dei suoi seguaci gli desse la spallata definitiva.
Ma la spallata non è arrivata e, così, adesso alcuni sostengono che i Consoli della Milizia gli avrebbero inoculato il bacillo della resistenza. Proprio l’ultimo giorno dell’anno, infatti, una delegazione dei capi squadristi ha invaso la sala del Mappamondo per portare fin dentro il palazzo del potere costituito la minaccia degli uomini della strada: o il Duce si decideva ad andare fino in fondo o loro lo avrebbero fatto senza di lui.
Accecati dalla certezza della caduta, pochi hanno notato che il vecchio mestierante ancora tenta di salvarsi grazie al maneggio della bassa politica. Da un lato, sapendo che molti degli attuali parlamentari non verrebbero rieletti, minaccia di sciogliere le Camere nel caso in cui il suo governo venga sfiduciato, dall’altro ha presentato a sorpresa un decreto legge per la riforma elettorale in senso maggioritario che in precedenza aveva sempre sdegnato.
Stretto nella morsa tra opposizioni, moderati e squadristi, con quell’unico colpo a sorpresa Mussolini è tornato signore del gioco: le opposizioni socialiste, comuniste e popolari – che devono molto al sistema proporzionale – verranno falcidiate; i vecchi notabili liberali che godono ancora di largo seguito individuale nei loro feudi elettorali – gradiranno il dono; i fascisti moderati e gli squadristi forsennati, entrambi scarsi di una propria reale base elettorale, eletti grazie alla marea proporzionale, saranno ora in balia del ricatto del duce che, nel chiuso del suo ufficio, assegnando o negando loro un collegio vincente, potrà designarli alla rielezione o all’oblio. L’animale politico spera che, a seguito di questa mossa, la palude romana, squassata dal delitto Matteotti, si richiuda su sé stessa inghiottendo, dopo mille altri, anche il cadavere del martire socialista. La sola cosa che conti per un politico di carriera è di essere rieletto e questo Benito Mussolini lo sa meglio di chiunque altro.
Quasi nessuno, però, crede che, giunti a questo punto, il duce del fascismo possa davvero salvarsi con un gioco di prestigio. Da due giorni i ventricoli del Paese fibrillano, le voci di dimissioni del Presidente si susseguono, le piazze risuonano di clamori antifascisti poi, incassata la smentita, tornano silenti. La vita si vive come in un film cinematografico, la scena muta di minuto in minuto, in un’altalena di passioni ora gioiose ora tristi. Ma quasi nessuno dubita che si tratti della scena finale.
In ogni caso, in quest’aula al tempo stessa affollata e deserta, aspettano tutti “Lui”, con il fiato sospeso lo aspettano come l’evento capace di stendere le proprie conseguenze sul resto di un’esistenza, di spezzare il cinema naturale della vita nazionale in un prima e in un dopo.

Pochi minuti dopo le 15, l’onorevole Mussolini entra in aula dalla solita porticina di destra, seguito dagli onorevoli Di Giorgio, Federzoni e Ciano. Appare «accigliato e scuro in volto», annota ilcronista de Il Corriere della Sera .
Il Duce del fascismo liquida con un cenno della mano destra gli applausi rituali dei suoi accoliti e prende posto dietro il banco della Presidenza. Quando l’onorevole Rocco gli cede la parola, nel silenzio più teso, con un gesto abituale, Benito Mussolini si aggiusta il nodo della cravatta. Poi parte subito all’attacco. Una secessione delle opposizioni funziona se l’avversario patteggia ma lui dimostra subito che non scenderà a patti. La sua poltrona di presidente del Consiglio è ancora una barricata, la sua apostrofe è rivolta a viso aperto ai suoi nemici.
«Signori! Il discorso che sto per pronunciare non potrà essere classificato a rigore di termini come un discorso parlamentare. Io non cerco da voi un voto politico, ne ho avuti già troppi».
L’oratore adesso impugna un libro. È il manuale dei deputati che contiene lo Statuto del Regno. L’attenzione di tutti si concentra sul volume rilegato come su una granata innescata. «L’articolo 47 dello Statuto dice: la Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all’Alta corte di giustizia. Domando formalmente: in questa Camera, o fuori da questa Camera, c’è qualcuno che si voglia valere dell’articolo 47?».
È un’ostensione. Benito Mussolini alza il libro delle regole democratiche in faccia ai parlamentari come un prete che esibisca ai fedeli la particola del corpo di Nostro Signore Gesù Cristo.
Silenzio. Uno solo. È sufficiente che parli uno solo e lui sarebbe perduto.
Tra i capi delle opposizioni, seduti ai loro scranni o mischiati tra la folla delle tribune, ci sono uomini di coraggio. Per anni la loro vita quotidiana è stata una trincea, hanno sopportato continue minacce, alcuni sonogià stati picchiati più volte. Basta che si alzi uno soltanto di loro, che si erga solitario nell’accusa, spezzando la disciplina di partito, l’anello della violenza, opponendo forza morale a forza fisica, rispondendo all’appello del futuro, giustiziato nel presente per esser vendicato dai posteri, sommerso dalla vita per salvarsi nella storia. È sufficiente che si alzi uno solo per avvelenare tutto ciò che “Lui” avrebbe ancora da dire, annotato in pochi appunti aperti all’improvvisazione su di un foglio volante.
Nessuno si alza. Nessuno si azzarda a entrare da solo nell’occhio del mirino che gli squadristi dalle logge tengono puntato sull’emiciclo.
L’appello al coraggio solitario e suicida è stata la mossa vincente. Se fosse stato rivolto all’intera assemblea, alla moltitudine, al futuro, e non a un singolo eroe votato al martirio, allora il fascismo avrebbe perduto. Ma non va così.
Balzano in piedi soltanto i cortigiani fascisti per applaudire il loro Duce.
Allora il Duce dilaga. Se nessuno in quell’aula ha osato alzarsi solitario nell’accusa, sarà lui, Benito Mussolini, a levare l’accusa contro sé stesso. La sua voce si leva potente nell’aula di Montecitorio mitragliando una sillaba dopo l’altra. Si è detto che lui avrebbe fondato una Ceka, una polizia politica segreta per eliminare gli avversari. Dove? Quando? In quale modo? Nessuno potrebbe dirlo. Se nessuno lo incolpa, lui, allora si discolpa: lui si è sempre detto discepolo di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia ma lui è coraggioso, intelligente, lungimirante, la violenza degli assassini di Matteotti è vigliacca, stupida, cieca. Non gli si faccia il torto di crederlo così cretino. Lui non si è mai dimostrato inferiore agli eventi, lui non avrebbe mai nemmeno immaginato di poter ordinare l’assurdo, catastrofico assassinio di Matteotti, lui non lo odiava affatto quell’avversario inflessibile, lo stimava perfino, ne apprezzava la testardaggine, il coraggio, così simile a quel suo coraggio che non gli ha mai fatto difetto. E ora sta per darvene una prova.
Benito Mussolini tace per qualche secondo come chi debba ricaricare un’arma. La sua menzogna spudorata, oscena come il delitto che disconosce, echeggia a lungo nell’aula del Parlamento italiano. Ma nessuna parola di verità risuona a smascherarla. Lui, allora, si pianta le mani sui fianchi, protende il collo e riprende a scandire le sillabe, martellando le frasi in rapida sequenza.
Per mesi si è fatta una campagna politica immonda e miserabile, si sono diffuse le bugie più macabre, più necrofile, si sono fatte inquisizioni anche sotto terra. Lui è rimasto calmo, ha frenato i violenti, ha fatto opera di pace. E i suoi nemici come hanno risposto? Alzando la posta, aggravando il carico. Si è inscenata la questione morale, si è detto che il fascismo non sarebbe una passione superba del popolo italiano ma una libidine sconcia, che il fascismo sarebbe un’orda di barbari accampati nella nazione, un movimento di banditi e predoni. In questo modo, riducendo tutto a delinquenza, si è suggerito agli italiani di non prendere mai nulla per vero, si è insinuato il velenoso sospetto che il cielo, la terra, l’aria, i colori, i suoni, gli odori, siano tutti solo l’inganno di un demone maligno, che il dramma grandioso della storia — la lotta dei popoli giovani contro quelli decadenti, il molo mediterraneo del continente europeo lanciato verso quello africano — andrebbe derubricato come un banale, inutile caso di cronaca nera. Si è, insomma, revocata in dubbio l’intera creazione, attribuendola alla farneticazione di un dio idiota che vomiterebbe stringhe di frasi insensate dal centro di un universo ignoto, si è sostenuto che il mondo sarebbe nient’altro che un perpetuo errore regolato dal male.
E, allora, Lui, adesso, con il suo abituale coraggio, Lui si opporrà ai calunniatori della vita, del mondo, della storia: «Ebbene, signori, io dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!».
Di nuovo, nessuno si alza ad arrestare il figlio del secolo. L’aula risponde con un unico urlo, rispettoso, devoto, entusiasta: «Tutti con Voi! Tutti con Voi, Presidente!». Lui, allora issa il mento verso l’orizzonte, gonfia il petto, tira le somme. Quando due elementi sono in lotta e sono irriducibili, la soluzione è la forza. Non c’è mai stata altra soluzione nella storia e non ce ne sarà mai. Lui, uomo forte, promette che la situazione sarà chiarita «su tutta l’area» nelle 48 ore successive al suo discorso.
Quell’espressione ambigua, prefettizia — «su tutta l’area» — cala sulla Camera dei deputati come una pietra tombale. La seduta è chiusa senza discussione né voto. L’assemblea sarà riconvocata a domicilio.
Smorzatosi il clamore delle ovazioni fasciste, l’aula, lentamente, a poco a poco, si svuota. Benito Mussolini rimane a lungo, da solo, seduto al suo banco di Presidente.
«Viva Mussolini! Viva Mussolini!». I fascisti acclamano il nome del Capo. Poi, prima di venire a congratularsi con lui al banco della Presidenza, intonano di nuovoGiovinezza. Molti di loro sono ancora poco più che ragazzi e stanno in piedi mentre prolunganole loro ovazioni. Salandra e gli altri dissidenti moderati rimangono, invece, seduti dietro i loro banchi mentre gli altri esultano verticali. Poi, dopo che si è dichiarata chiusa la seduta, anche loro, bisbigliando il loro patetico disappunto, poco alla volta, sciamano verso l’uscita. Mentre i liberali ripiegano, sulle tribune si può ancora scorgere Turati, il vecchio patriarca del socialismo umanitario, interrogato dallo sguardo smarrito dei compagni, che replica con rassicuranti gesti di sufficienza. Come a dire: «Non vi allarmate. È il solito Mussolini che cerca di spaventare le passere».
Non capiscono cosa stia accadendo. Né gli uni né gli altri. Non possono ancora sapere che questo 3 gennaio del 1925, vissuto in prima persona eppure mancato, incompreso, sarà ricordato come il giorno in cui Mussolini soppresse la democrazia per istituire la dittatura fascista in Italia. Ancor meno possono immaginare che il domani durerà vent’anni. Continueranno a combattere, da una parte e dall’altra, senza sapere che abitano già una casa di morti.
Gli antifascisti lasciano l’aula di Montecitorio quasi in segreto, alla spicciolata, ciascuno per sé, numerosi, giusti, indomiti eppure sconfitti. Ognuno di loro pagherà il suo prezzo, racconterà il suo dolore, custodirà gelosamente il proprio rancore. Non hanno capito che all’appello ultimativo della storia non si risponde uno alla volta ma sorgendo tutti insieme — miti, pacifici, umili eppure tenaci — contro la brutalità, il sopruso, la buriana. Non hanno capito che non si salva la democrazia uno alla volta. Uno alla volta si può soltanto morire per essa.