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 2025  gennaio 02 Giovedì calendario

Le telefonate choc di Cecilia

Nella cella lunga quanto lei sdraiata, Cecilia Sala non ha un materasso e dorme per terra, su una coperta. Ne ha un’altra di coperta per proteggersi dal freddo di Evin che è pungente – «doloroso», dicono le detenute iraniane – e congela. Cecilia Sala non vede nessuno dal 27 dicembre, dal giorno in cui ha incontrato l’ambasciatrice Paola Amedei.
Spiata
Non vede nemmeno le guardie che la spiano e la controllano, perché le passano il cibo – molti datteri – da una fessura della porta. Non ha ricevuto nessun pacco. Nessun panettone. Nessun cioccolato, né sigarette, né maglioni, né i quattro libri che già immaginavamo tra le sue mani, né la mascherina per proteggersi dalla luce al neon accesa 24 ore su 24, né beni di prima necessità. Anzi: a Cecilia Sala sono stati confiscati gli occhiali da vista.
L’unico – l’unico – particolare che per la famiglia della giornalista in cella in Iran dal 19 dicembre, aveva l’ombra di una rassicurazione, era quella frase pronunciata dalle autorità subito dopo l’arresto: «Tratteremo la reporter italiana in modo dignitoso». Ora lo sappiamo: non va così.
A Sala è riservato lo stesso trattamento delle prigioniere politiche che affollano le celle del carcere simbolo della repressione della Repubblica islamica. Il metodo è identico: senza dignità.
I contatti
Ieri, primo gennaio, nemmeno 24 ore dopo il discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella dedicato anche a lei, alla giornalista del Foglio e di Chora Media sono state concesse tre chiamate: alla madre, al padre, al compagno e collega Daniele Raineri. Telefonate sconvolgenti per la famiglia che la immaginava in condizioni migliori, viste le informazioni arrivate degli ultimi giorni.
Ma il regime fa il regime e non rispetta la parola data. La versione della Repubblica islamica era un’altra. Avevano raccontato che è stata scelta una cella singola per farla sentire al sicuro, per farla stare meglio. Avevano aggiunto che finalmente erano riusciti a consegnarle il pacco dell’ambasciata con alcuni dolci, libri e beni di prima necessità. Niente di tutto questo è vero. Sala è una prigioniera a tutti gli effetti degli ayatollah che non specificano ancora l’accusa per cui l’hanno arrestata. La tengono in regime d’isolamento con un generico «ha violato le leggi della Repubblica islamica».
I diritti violati
«Fate presto», ha detto la giornalista nella prima chiamata dopo l’arresto. Lo ha ripetuto anche ieri: «Fate presto». Sala non può rimanere chiusa tra le pareti di una prigione dove non vengono rispettati i diritti umani.
Se il suo destino è speculare a quello di Mohammad Abedini-Najafabad – l’ingegnere iraniano esperto di droni e detenuto in Italia dal 16 dicembre per conto degli Stati Uniti – in realtà ci sono già molte differenze tra le loro storie, le loro detenzioni: Abedini ha un materasso, delle coperte, dei libri, dei vestiti, contatti umani. Ha la certezza di un sistema giudiziario che gli garantirà un trattamento giusto, secondo le leggi del diritto internazionale. Sala è ostaggio di un Paese illiberale che sta mostrando tutta la sua ferocia nei confronti di una cittadina straniera che è andata in Iran per fare il suo lavoro con un visto giornalistico regolare.
La legge farsa
Secondo l’articolo 38 della Costituzione iraniana, l’isolamento non è consentito né dalla legge statale, né da quella religiosa. Precisamente: «Sono vietati qualsiasi tipo di tortura, estorsione di confessioni o acquisizione di informazioni, costrizione degli individui a testimoniare, giuramenti forzati. Queste prove mancano di credibilità». Una legge-farsa mai rispettata tra i corridoi di Evin. Violata da sempre, dalla sua costruzione ai tempi dello Scià. Violata anche con Sala. I suoi racconti sono così simili, così sovrapponibili, a quelli delle donne iraniane passate per le stesse stanze dell’orrore, da far spavento. Il freddo, la solitudine, la fame, quel pavimento grigio di cui tutte parlano. La luce accesa che fa impazzire. Lo spazio minuscolo, la porta chiusa che non si apre mai.
L’altra testimone
Solo tre giorni fa, Elahe Ejbari, studentessa iraniana scappata in Germania e detenuta tre mesi a Evin, anche lei in isolamento, diceva al Corriere: «Nella mia cella singola non c’era il materasso, né il cuscino, ma solo due coperte. Morivo di freddo. Non c’erano finestre. Non avevo libri, penne, nulla. Se dovevo andare in bagno, bussavo alla porta. Le guardie non arrivavano mai. A volte ho aspettato ore. Cercavo di stare vigile e non perdere la lucidità». L’avevamo sentita per farci raccontare la sua esperienza nel carcere di Teheran. L’abbiamo richiamata: «Cecilia Sala è trattata come sei stata trattata tu: hanno mentito». Ci ha risposto: «Lo sapevo, le autorità iraniane non fanno favori. Non dovete fidarvi delle loro parole». E fa una lista di nomi di stranieri detenuti a Evin tra cui quello di Nahid Taqvi, un cittadino tedesco.
Non la stupisce questa notizia sui contenuti delle telefonate di Cecilia ai familiari, che a noi sconvolge: «È la loro strategia – dice riferendosi al trattamento del regime —. Esercitano una pressione sempre maggiore per ottenere quello che vogliono. In questo caso la liberazione di Abedini», continua Ejbari. La studentessa spera che Sala non firmi nessuna lettera né documento. E ha altre due speranze. La prima è che la liberino al più presto. La seconda: «Vedrete che la porteranno nel reparto femminile del carcere, dove sicuramente le attiviste iraniane diventeranno sue amiche e la guideranno nell’inferno di Evin».