Corriere della Sera, 2 gennaio 2025
L’America e le stagioni del terrore
L’America ha vissuto molte stagioni del terrore all’interno dei propri confini. Azioni portate da suprematisti, da elementi come Unabomber ai jihadisti per passare a chi vuole eliminare il presidente. Un’emergenza senza fine determinata anche dalle scelte della Casa Bianca in politica estera.
Alla fine del febbraio 1993 c’è un colpo che avrebbe dovuto far riflettere sull’affermarsi di una nuova minaccia: un nucleo estremista fa esplodere un veicolo-bomba nel parcheggio del World Trade Center a New York. Sei le vittime. All’inizio pensano che sia una ritorsione dei serbi, poi scopriranno che la trama porta dritta al Medio Oriente, ai cattivi maestri – lo sceicco cieco egiziano Omar Abdel Rahman – alle avanguardie islamiche di al Qaeda, il movimento capace di «bombardare» nel 2001 New York e Washington con i jet trasformati in missili. Nel mezzo, ad aprile del 1995 l’eccidio compiuto degli estremisti di destra a Oklahoma City, 168 i morti di un atto pianificato da una micro-cellula, una realtà eversiva in apparenza «senza capi».
Lo scudo eretto da intelligence e polizie nel post 11 settembre, le operazioni militari del Pentagono dall’Afghanistan all’Iraq riducono gli spazi di manovra ai «radicali». Infatti, passano dai «grandi attacchi» ad azioni minori ripetute. È la strategia dei mille tagli, una serie infinita di fendenti, non importa quanto profondi, che però fanno sanguinare l’avversario.
I lupi solitari sono una scelta e una necessità, li pescano da remoto, li ispirano, li addestrano via web, con l’enciclopedia guerrigliera postata da Abu Musab al Suri, il teorico di una campagna dove si agitano gruppi autonomi, indipendenti che lasciano alla casa madre il merito. Non meno efficaci le lezioni, sempre su Internet, di Anwar al Awlaki, diventato il faro per seguaci che vivevano in Occidente.
C’è chi spara perché ha obbedito ai suggerimenti diretti di questi «profeti» oppure è stato semplicemente influenzato da quanto accade nel mondo musulmano, segnato dalla sofferenza dei «fratelli». Cresce il terrorismo «di atmosfera», dove contano molto la percezione, le sensazioni, le immagini violente.
Tanti gli episodi, con legami non sempre stretti tra esecutori e «comando». Il maggiore dell’esercito americano Nidal Hassan, origini palestinesi, aprirà il fuoco sui commilitoni a Fort Hood, nel novembre 2011. Aveva studiato i sermoni di al Awlaki. Poi ci saranno le scorrerie degli affiliati al Califfato, con numerosi massacri provocati da persone dai profili a volte confusi. Useranno fucili, pistole ma anche veicoli-ariete. Dal 2014 sono state incriminate circa 250 persone «legate» in forme diverse all’Isis, con un’età compresa tra i 15 e i 82 anni, in maggioranza cittadini statunitensi o residenti legali. In epoche più recenti c’è stata una media di una dozzina di arresti all’anno, con un numero però ampio di indagini.
E al pericolo costante dei tagliagole si aggiungerà la paura di operazioni da parte dell’Iran, dell’Hezbollah, di individui che spesso sono come degli «agenti in sonno», si appoggiano a criminali comuni e contribuiscono a innescare l’allerta continua.