la Repubblica, 1 gennaio 2025
I tassi nel 2025
È stata una migrazione di massa come non si vedeva da lungo tempo, un doppio movimento che ha lasciato stupiti gli esperti. A metà dicembre le colombe hanno lasciato gli Stati Uniti per trovare riparo in Europa, mentre più o meno negli stessi giorni i falchi hanno intrapreso la rotta contraria. Sono falchi e colombe della politica monetaria, naturalmente, ma l’inversione di prospettiva tra la Fed e la Bce – la prima che per bocca del presidente Jerome Powell annuncia una politica sui tassi più restrittiva, l’altra che lascia capire come i tempi dei rubinetti serrati del credito siano ormai finiti – è quella che condizionerà i mercati nel 2025. Un’inversione di prospettive che potrebbe portare anche al “decoupling” tra banche centrali: movimenti di direzione ed entità differenti per far fronte a situazioni macroeconomiche divergenti.
La Bce verso quota 2%
Per quel che riguarda la zona euro, gli analisti ritengono al momento che il taglio di un quarto di punto operato questo mese dalla Bce, portando il costo del denaro al 3%, sarà seguito da analoghe mosse nel corso dell’anno in arrivo, arrivando al prossimo dicembre con una ulteriore riduzione di 100 punti base e quindi un tasso del 2%. Molti gli indizi in questa direzione, a partire dal rituale comunicato dopo il Consiglio direttivo del 12 dicembre, dove era assente una frase ripetuta da lungo tempo e relativa all’impegno a mantenere i tassi «sufficientemente restrittivi finché necessario». Adesso, lo sguardo dei banchieri centrali è meno ansioso per quel che riguarda l’inflazione e più attento alla ripresa economica, che è vista in calo rispetto alle previsioni di settembre. Le nuove stime sono di una crescita del Pil nella zona euro dello 0,7% nell’anno che si conclude, dell’1,1% nel 2025 e dell’1,4% nel 2026. Non certo una corsa che rischia di surriscaldare l’economia, anzi. Sempre nel suo comunicato del 12 dicembre, la Bce spiega che si attende che la tiepida crescita economica sia alimentata specie dalla domanda interna e dice che «il graduale venir meno degli effetti della politica monetaria restrittiva dovrebbe sostenere una crescita della domanda interna».
Il bilancio della Bce
La scommessa, qui come negli Stati Uniti, sarà quella di arrivare al tasso “neutrale”, che consenta all’economia reale di viaggiare a una velocità propria, senza accelerarla né frenarla. Se le voci più dure della Bce taceranno – ed è possibile che questo accada anche per una crisi dell’economia tedesca che proseguirà nel 2025 – quel tasso “neutrale” dovrebbe appunto essere più vicino al 2 che al 3%. Ma i tassi nella zona euro potrebbero scendere ancora di più, se le cose andassero peggio. In altre parole, se la politica di dazi promessa da Donald Trump si avverasse, l’effetto depressivo sulle economie europee potrebbe essere tale da costringere la Bce a ridurre il costo del denaro più del previsto, a quota 1,5%. Ma difficilmente i mercati festeggerebbero questo taglio; sarebbe invece il segnale di una situazione economica che si va aggravando e che richiede misure eccezionali.
La Fed e l’inflazione
Il convitato di pietra alla tavola dei banchieri centrali è ovviamente Trump, o per meglio dire la sua annunciata politica di protezionismo doganale, che potrebbe far schizzare nel 2025 l’inflazione Usa e costringere appunto la Fed a premere con meno entusiasmo il pedale che fa accelerare l’economia: quello del ribasso dei tassi. Così il 18 dicembre, il presidente Jerome Powell, pur annunciando un ulteriore taglio dei tassi di 25 punti base, arrivando così al 4,25%, ha gelato le aspettative di nuovi e sostanziali ribassi spiegando che «da qui in avanti siamo in una nuova fase e saremo cauti nell’operare ulteriori tagli» del costo del denaro. Un orientamento che guarda innanzitutto al buono stato dell’economia statunitense e che non può non tenere in conto il rischio di spinte inflazionistiche: i dazi che faranno inevitabilmente aumentare il costo dei beni importati e un possibile stimolo fiscale che avrebbe anch’esso un effetto sui prezzi. La stessa Fed, rendendo pubbliche le sue ultime previsioni economiche, il 19 dicembre ha cambiato la previsione di inflazione per il 2025 dal 2,1% di settembre a un ben più corposo 2,5%. E allo stesso tempo ha alzato le stime sulla crescita del 2024 dal 2 al 2,5% e quelle per il 2025 dal 2 al 2,1%. Al momento il consenso degli analisti si orienta su un taglio dei tassi che nel 2025 potrebbe essere di soli 50 punti base, aumentando le divergenze da un lato all’altro dell’Atlantico e spingendo ancora verso l’alto il dollaro americano.
Intanto in Cina…
L’economia cinese non se la passa troppo bene e rischia di soffrire ancora di più se i super dazi di Trump, che per i prodotti di quel Paese potrebbero essere addirittura del 60%, entreranno in vigore. Il governo cinese ha fissato il target di crescita dell’economia per il 2025 attorno al 5%, la stessa percentuale del 2024, ma una frenata del commercio mondiale potrebbe costringere Pechino a rivedere al ribasso i suoi obiettivi. Anche per questo, a metà dicembre, dopo 14 anni dalla comunicazione della Banca centrale cinese sull’andamento futuro della politica monetaria è scomparsa la parola «prudente», sostituita dall’annuncio che sarà una politica «moderatamente rilassata». Una definizione che riporta alla crisi finanziaria del 2008, quando oltre ad abbassare i tassi, il governo cinese immise nell’economia nazionale un pacchetto di stimoli pari al 13% del Pil. Adesso, le risorse per stimoli così forti non ci sono e anche la politica dei tassi, se gli Stati Uniti saranno più restrittivi del previsto, non potrà essere troppo morbida per evitare una eccessiva svalutazione dello yuan. Le migrazioni di falchi e colombe sono l’ultima sorpresa del 2024, ma nei cieli delle banche centrali il 2025 sarà un anno con molti altri fenomeni difficilmente prevedibili.