La Stampa, 31 dicembre 2024
Ormezzano ricorda quella corsa in auto con Gigi Meroni
Facevo il giornalista sportivo già da un bel po’ quando, nella Torino di metà degli anni Sessanta, ancora generosa di notti tranquille, senza traffico ubriaco, incappai in Gigi Meroni, grande calciatore del mio Torino, e non lo riconobbi. Soffro di prosopagnosia da sempre: «Ciao ma chi sei?» chiesi ad una ragazza che mi salutava; era la mia prima figlia appena uscita dal parrucchiere. Meroni non era proprio tenuto a riconoscermi, io ho una faccia che sa di niente e poi battevo soprattutto nel ciclismo e sport olimpico. Ma lui era: a) uno del mio Toro, b) un campione patentato, granata e azzurro, c) un subito celebre emulo dei figli dei fiori, dei Beatles, dei punk, insomma di quei «cosi lì», per come e quanto si dotava di vesti e di peli e di galline al guinzaglio (non tatuaggi, no), d) un osservatissimo predecessore dei sessantottini per quanto alitava un forte respiro di libertà.Ci trovammo affiancati ad uno stop, lui su una coupé scoperta io su una utilitaria. Estate, finestrino abbassato, udii perfettamente la sua sfida: «Facciamo a chi arriva primo al prossimo semaforo». Vinse lui, mi diede la rivincita immediata, rivinse. Di semaforo in semaforo arrivammo in piazza Vittorio. Sconfittissimo uscii dall’auto, gli strinsi la mano. Mi disse: «Io faccio il pittore, ho lo studio qui sopra, vuol salire a vedere i miei quadri?». Ultimo piano, soffitta sin troppo tipica d’artista. Tante tele, fiori e volti di donna sempre incompiuti. Lei, la donna, era lì in carne e ossa, compiutissima, bella sette volte sette belle veline. «Cristiana, la mia fidanzata». Lessi la firma del quadro più bello, il pittore si fece calciatore, era lui il mio Meroni del Toro, Luigi Meroni detto Gigi o Luigino.Nacque un sodalizio molto speciale, tornai altre volte nella soffitta che lui aveva deciso di lasciare come abitazione, per tenerla soltanto come studio. Cristiana sempre più bella, ogni giorno per lei una rosa dalla fioraia sotto i portici. Seppi tutto della loro storia, lei che lavorava al tiro a segno in un Luna Park di Genova, lui calciatore rossoblu che si innamorò, i suoi di lei che la cedettero in moglie a un ricco giostraio, roba da Dickens della Superba, lei che uscendo sul sagrato della chiesa dopo la cerimonia vide il suo innamorato che la aspettava piangendo, lei che mai consumò quel matrimonio, la Sacra Rota chiamata ad annullarlo.Gigi amava il mio ciclismo: «Da ragazzino a Como facevo il contrabbandiere, passavo il confine portando sigarette e cioccolato, incredibile quante cose si possono nascondere in una bicicletta». Al Torino lo allenava Nereo Rocco che mi diceva: «Non mi va come veste, non mi vanno i suoi capelli lunghi, aspetto che ritardi di un minuto a un allenamento per sgridarlo un poco su tutto, ma lui nel lavoro è il più serio, ed è pure un ragazzo buono». A Rocco succedette Edmondo Fabbri che da citì azzurro aveva messo Meroni fuori squadra per via proprio dei capelli lunghi, e che al funerale piangeva disperato la perdita di un figlio unico.Mai fatta un’intervista a Meroni, eravamo in confidenza tale che ci sarebbe scappato da sorridere se mi fossi messo davanti a lui col taccuino (e rido grasso se me lo penso adesso, fra campioni che sono ologrammi e twittano o chattano o messaggiano). Voleva bene al Toro, aveva fatto in fretta a capire il cuore granata, ma non fanatizzava. «Io guadagno troppo col calcio, non è giusto, devo smettere presto, ritirarmi a Como a dipingere. Con Cristiana ma anche tutti i miei famigliari, in una grande casa sul lago». Ero persino geloso delle sue confidenze, altro che intervista. Al giornale sapevano da me di questi scambi di parole, di idee con Meroni (mai comunque parlammo di Superga, mai gli dissi che il comandante di quell’aereo si chiamava Luigi Meroni): e quando arrivò la notizia dell’incidente – Gigi investito dall’auto di uno che sarebbe diventato presidente del Toro – mi dissero di andare al pronto soccorso del Mauriziano ad aiutare il collega incaricato del servizio. Il collega collassò per l’emozione, toccò a me scrivere.Ero seduto fra Cristiana e il presidente del Torino Pianelli quando un medico si affacciò alla porta della stanzetta dove aspettavamo, allargò le braccia, lei urlò un «Nooooo!» che sento ancora. L’ho rivista quando il Comune si decise a porre un cippo ufficiale, in corso Re Umberto, sul posto della sciagura, a fianco di quello sommario, foto e fil di ferro a tenere la fotografia e il vaso dei fiori serrati al palo della luce, messo insieme da Enrica, vecchia tifosa granata. Enrica che dalla sua Liguria dove stava morendo mi telefonò: «Se tolgono il mio cippo vengo a Torino e ammazzo il sindaco, diglielo, tanto io ho il cancro terminale». Fatto, cioè detto, i due cippi convivono in pochi metri, spesso pieni di sciarpe e di fiori. —