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 2024  dicembre 31 Martedì calendario

Bruno Bozzetto e il fascino di disegnare storie umane

Quando, nel 1991, hanno detto a Bruno Bozzetto che era candidato all’Oscar per il miglior cortometraggio animato con il suo Cavallette, non si è scomposto. Forse non ci ha nemmeno creduto. È fatto così, pensa al suo lavoro come a un’evoluzione naturale della sua pacata e vulcanica intraprendenza. Se, come diceva Fritz Freleng, gli animatori sono «il prodotto della propria immaginazione», Bozzetto – la cui vita è raccontata in Il signor Bozzetto, scritto con Simone Tempia e pubblicato da Rizzoli Lizard – è senz’altro un ottimo personaggio. Dal 1958 costruisce universi di carta, che superano il reale e lo ritraggono, lo animano, lo colorano, ma non lo tradiscono. Il signor Rossi, suo personaggio più celebre inventato nel 1960, ha incarnato l’esaltazione di questo reale e l’estraneità del suo creatore alla tirannia della realtà. Con i suoi film animati, premiati a Cannes e a Berlino, Bozzetto sa parlare di tutto, senza escludere nessuno: di ecologia e di società, di dritti degli animali, di alimentazione, di vita, che poi è la cosa che gli riesce meglio. Studia da più di sessant’anni i suoi contemporanei, li osserva cambiare ed evolvere, a volte corrompersi, più spesso esaltarsi. Può darsi che sia perché non ha mai smesso di credere nel futuro.Cosa ne sarà di noi?«Difficile dirlo. Il mondo è un bel pasticcio».E del cinema di animazione?«Questo è più facile, un pasticcio lo è sempre stato. Soprattutto da indipendenti, proporre un film di animazione è sempre stata una pazzia».Cos’hanno di così pazzo?«Richiedono una mole di lavoro enorme, l’impiego di centinaia di disegnatori, animatori, tecnici. E poi la lavorazione è molto lunga, da quando si comincia ci vogliono tre anni prima di vedere qualche risultato, il rientro capitali è problematico. Un film in carne e ossa sembra una passeggiata, in confronto. E poi c’è quel vecchio equivoco…».Quale?«Che i film di animazione siano sempre roba per bambini. Quando ho cominciato io non se ne usciva, poi col tempo e con l’abitudine si è capito che non è così. Un film d’animazione può non solo rivolgersi a un pubblico adulto, ma farlo con un linguaggio e con una forza che molti altri generi non hanno. Inoltre, può incassare davvero e diventare popolarissimo».Ad esempio?«I Simpson dovrebbero bastare. È la serie più longeva e di successo che esista, parlando di animazione per adulti, che non vuol dire escludere i giovani e gli adolescenti».Qual è il loro segreto?«Non è un segreto, è un’intuizione. I Simpson parlano dell’umanità, della famiglia, della vita vera, e questo ha fatto sì che chiunque ci si rispecchiasse. Parlano delle nostre debolezze e della stortura della nostra società, è l’unico modo interessante di utilizzare uno strumento artistico».Lei lo ha fatto molto bene…«Io ho fatto quello che mi interessava. Volevo parlare dell’uomo, inteso come essere umano, e avevo a disposizione l’animazione. Mi stava a cuore il destino della terra, leggevo Konrad Lorenz e Desmond Morris e sapevo che avrei potuto fare qualcosa, o per lo meno dire qualcosa, sul destino dell’uomo e sul suo rapporto con la natura e con il pianeta in cui vive. Quando nel 1967 ho fatto La vita in scatola avevo in mente questo. Non lo sapevo allora, ma quando abbiamo inventato i missili nel cervello stavamo prevedendo i cellulari, strumenti di controllo che noi allegramente utilizziamo di continuo».Si sente un precursore?«Mi sento un curioso. Ho sempre voluto osservare l’umanità da vicino e l’ho fatto per quanto possibile. Sono incuriosito da quello che accade ai miei simili. Le favolette e le storie d’amore non mi sono mai interessate, per questo non ne ho mai fatte. Volevo rimanere attuale e per farlo occorre continuare a osservare».Può aiutare ad aggiustare le cose?«Può aiutare a metterle in prospettiva. Dicevamo dell’ecologia, mi ricordo che da quando ho iniziato a occuparmene ho sempre ammirato gli orientali. Se un occidentale deve costruire una casa in un bosco, la fa su una collina, da dove domina tutto, da dove tiene tutto sotto controllo e da dove si sente padrone di tutta la natura che ha intorno. Gli orientali la costruiscono tra gi alberi, la camuffano da natura, la rendono parte dell’intorno».È il privilegio dell’osservatore?«È un diritto, e pertanto va conquistato e preservato».Insomma, il futuro la preoccupa…«A livello globale forse un pochino. A livello particolare meno. Sono sempre stato affascinato dall’evoluzione e dal progresso dei mezzi. Nel mio campo le cose sono cambiate tantissimo da quando ho cominciato a fare film, ma allo stesso tempo sono rimaste laboriose».Pensa all’Intelligenza Artificiale?«Anche. È un mezzo affascinante per un regista perché permette di avere a disposizione un apparato tecnico completo e di vedere i risultati in tempi brevissimi. Una volta per vedere una scenografia occorrevano dieci o quindici giorni, adesso in dieci minuti si possono avere dieci opzioni diverse, basta parlare con la macchina e la macchina elabora».E questo non la spaventa?«Non spaventa me perché ho le idee chiare, anche se prima di sperimentare su serio le potenzialità della nuova tecnologia voglio capirla bene. Per chi dirige è una grande innovazione tecnologica, ma occorre essere precisi e diretti, perché con la macchina non si può ragionare. Si rischia che esca un pastrocchio, anche perché sul particolare non è che l’Intelligenza Artificiale sia così preparata».Però evolve velocemente…«Fin troppo. Corre. E questo porta a un altro rischio».«Quello dell’impigrimento dei registi. Si rischia di delegare tutto alla macchina e di non preoccuparsi più della buona riuscita del prodotto. Si rischia di tralasciare i particolari. Uno scenografo, se il regista non è preciso, lo corregge. Una macchina si limita a eseguire».Lei mi sembra affezionato alla vecchia maniera…«Lo sono. Penso di aver sempre lavorato in maniera artigianale, anche quando mi sono trovato affiancato ai grandi studios. Per me l’importanza del lavoro a tu per tu, del confronto, del litigio, è imprescindibile. Gli studios sono catene a compartimenti stagni, dove un reparto non sa cosa sta facendo quello vicino. Io ho bisogno di sapere che sto lavorando con persone con le quali posso condividere un pensiero, anche se diverso dal mio».Non è scontato…«Già. Specialmente di questi tempi in cui l’automazione sta portando a una concorrenza del cento percento e chiunque abbia un’idea può trasformarla in animazione. Io ho avuto la fortuna di poter sempre fare a modo mio».Anche dopo la candidatura all’Oscar?«Sì. Avrei potuto espandermi ma ho deciso di non farlo. Rispetto gli americani, ma dai primissimi tempi mi sono accorto che c’erano due modi di lavorare: come Walt Disney o come tutti gli altri, quelli che incontravo ai festival. Un approccio completamente opposto, perché la competizione era impossibile. Sono rimasto legato alla mia artigianalità e questo mi ha salvato, dal punto di vista artistico».Una visione molto nobile…«L’unica che mi sia mai sentito di avere. Le sono affezionato». —