la Repubblica, 31 dicembre 2024
Piero Grasso, le quattro vite di un magistrato
ROMA – Piero Grasso, ottant’anni e quante vite?«Ufficialmente compio gli anni l’1 gennaio, ma sono nato il 23 dicembre 1944 a Licata. Mia nonna, sconvolta dalla guerra, convinse mio padre a dichiararmi nel ’45 per farmi guadagnare un anno in caso di una chiamata alle armi. E di vite ne ho avute quattro: quella da bambino, ragazzo come tutti. Quella da magistrato, da politico e ora quella della Fondazione».Preferisce essere chiamato procuratore o presidente?«Procuratore. Per quanto non avrei mai immaginato di ricoprire la seconda carica dello Stato, la mia carriera in magistratura, l’essere stato giudice a latere del primo maxiprocesso, capo della Procura di Palermo e della Direzione nazionale antimafia, è stato il coronamento di un sogno che ho avuto fin da piccolo».Magistrato già a 24 anni. Come mai questa scelta?«Un giorno mio padre tornò a casa con Il giornale L’Ora. In prima pagina la foto di una donna in nero (era Serafina Battaglia) che piangeva sul corpo di un ragazzo ucciso. Sullo sfondo un uomo. “Papà, e quello chi è?”. “Quello è il magistrato che fa il sopralluogo e le indagini per trovare i colpevoli”. “È quello che voglio fare da grande” gli risposi. E così fu».In un’altra foto storica, quella del delitto del presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, c’è lei giovane pm che fa il sopralluogo.«Ero di turno quel 6 gennaio 1980, fu la mia prima indagine di mafia. Il cappotto color cammello non l’ho mai più messo. E mai avrei pensato 35 anni dopo di rincontrare Sergio Mattarella per il passaggio di consegne da me, presidente della Repubblica supplente dopo le dimissioni di Napolitano, a lui, nuovo capo dello Stato».Diciannove ergastoli e 2665 anni di carcere ai boss di Cosa nostra. Come è arrivato a fare il giudice a latere del maxiprocesso?«Settembre 1985, un giorno che mi ha cambiato la vita. Falcone e Borsellino erano tornati dall’Asinara dove avevano scritto l’ordinanza di rinvio a giudizio. Mi chiama il presidente del tribunale Franco Romano. Io ero in ferie a Mondello. “Vieni, devo parlarti”. “Presidente, ho la macchina dal meccanico”. “Ti mando l’autista”.Mi presento in ufficio e comincia a dirmi: “Sei bravo, apprezzato dagli avvocati…”. “Presidente, dov’è la fregatura?”. E mi propose l’incarico che molti giudici avevano rifiutato. Chiesi 24 ore per parlarne con mia moglie Maria. Tornai a casa e le raccontai tutto: “Se accetto cambierà la nostra vita, dovremo vivere sotto scorta, minacce, delegittimazioni”. Ma lei mi disse: “È il sogno della tua vita, quello che viene ci prendiamo”. Il giorno dopo mi presentai da Falcone, mi portò in una stanzetta con i faldoni fino al tetto, 400.000 pagine da studiare e mi disse: “Ti presento il maxiprocesso”».Tiri fuori dei ricordi di quei mesi nell’aula-bunker dell’Ucciardone.«Il primo giorno, le gabbie stracolme di mafiosi, centinaia di giornalisti di tutto il mondo. Un groppo in gola, lo stesso di 22 mesi dopo, quando salimmo sul pretorio per la lettura della sentenza. Durò un’ora e 35 minuti e nessuno al momento capì il dispositivo. Ricordo da una gabbia un detenuto che gridò: “Avvocato, ma come finì?”. Segnammo uno spartiacque, dimostrammo che la mafia era un’organizzazione strutturata, che i processi con i pentiti si potevano fare, che lo Stato unito può fare la differenza».Ben 35 giorni in camera di consiglio, uscì con la barba lunga.«Due giudici togati, un’ostetrica, tre professoresse, un ex impiegato comunale, un dipendente di banca. Diventammo una famiglia. Io mi portai la cyclette e un vogatore e la mattina invece di farmi la barba mi tenevo in movimento. C’era un cuoco che cucinava per noi, ma non potevamo incontrarci. Quando era pronto, suonava il campanello. Aveva portato una lavagnetta in cui potevamo scrivere i nostri desideri. Un giorno ci fece dei meravigliosi gamberoni al vino. Ma il presidente Giordano era allergico al pesce. Protestò, ci rampognò sullo spreco di soldi e scrisse sulla lavagnetta un’ordinanza con cui vietava di introdurre pesce nell’aula bunker».Da 45 anni sotto scorta, con Falcone e Borsellino ha condiviso impegno, amicizia, paura.«La paura la esorcizzavamo. Una volta Giovanni disse a Paolo: «Ma le chiavi della cassaforte le hai solo tu. E se ti ammazzano?”. E lui gli rispose: “Tranquillo, prima uccidono te”. Un’altra volta Borsellino fece sparire una delle papere della collezione di Falcone. Lui diventò pazzo. Paolo gli fece trovare un biglietto: “Trattasi di sequestro di papera. Il riscatto è un pacchetto di Dunhill”».Con Falcone poi lei andò a Roma, capo della Dna con la cattura di Provenzano e la collaborazione di Spatuzza che fece scoprire il depistaggio sulle stragi. Poi perché il lancio in politica?«Stavano finendo gli otto anni alla Dna. Bersani mi chiese di dare una mano nella legislazione antimafia. Fui eletto al Senato, il primo giorno presentai un ddl anticorruzione. Poi arrivò la carica di presidente, due anni dopo, alle dimissioni di Napolitano, mi sono ritrovato a fare il capo dello Stato supplente».Poi però la politica ha deciso di lasciarla. Deluso?«Sì. Da magistrato ho ottenuto risultati concreti, in politica pensavo di poter fare di più, ma se non hai i numeri, anche se le tue idee sono condivisibili, restano al palo».Falcone diceva che anche la mafia avrà una fine. Oggi i boss sono morti o in carcere. La mafia è finita?«Il giorno dell’arresto di Messina Denaro ero dal notaio per la costituzione della fondazione Scintille di futuro con la quale ora mi dedico all’educazione alla legalità dei ragazzi. È finita Cosa nostra stragista ma la mafia non è scomparsa, si adatta, sfrutta le nuove tecnologie, è difficile da combattere. Occorre la volontà delle istituzioni di fare luce sulla zona grigia delle connivenze, e da parte dei cittadini quella di vivere con un’etica che disprezza il codice mafioso».