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 2024  dicembre 30 Lunedì calendario

Damien Lewis: tutti i rischi dei reporter di guerra


Oltre alla giusta indignazione scaturita a caldo da un’aggressione palese alla libertà di informazione, è bene anche cercare di fare un po’ di chiarezza. Prendere qualche passo di distanza dalla vicenda di Cecilia Sala e provare a osservare una situazione che, per molti che negli ultimi decenni si sono trovati a scrivere da zone di guerra, ad altissimo rischio, e da situazioni di conflitto, è molto più frequente di quanto si possa immaginare. Questo non significa che sia normale. Ma in un ambiente nel quale la giustizia è sommaria, le informazioni valgono vite e le vite si confondono con gli interessi bellici, anche la normalità diventa relativa.Il reporter britannico Damien Lewis opera come inviato di guerra da più di trent’anni, ha esplorato alcuni tra i territori più remoti e rischiosi del mondo, soprattutto nel continente africano e in Asia, dove nemmeno la mano larga dell’intelligence più efficiente del mondo sarebbe stata in grado di assicurargli protezione. E ne è uscito. Conosce il sistema in tutti i suoi meandri di corruzione e ingiustizia, sa cosa vuol dire addentrarsi tra le maglie del totalitarismo. Sa dove finisce il diritto umanitario e dove comincia quella strana forma di mercato delle vite, dei corpi e delle menti per il quale ogni fonte di informazione è contemporaneamente una minaccia e una risorsa: per il potere e per chi ha bisogno di conoscere la verità. Sa che spesso ricercare la verità non è una velleità e che il suo mestiere è molto diverso dalla “vacanza-avventura” che ancora gli si ritaglia addosso. Quando gli raccontiamo di Sala, sorride con amarezza. «È una vecchia storia», dice. «Sempre più frequente, sempre meno stupefacente».Lei è mai stato arrestato?«Sì. Diverse volte. Dalle forze ribelli in Africa. Dalle autorità di molte zone di guerra, soprattutto per essere entrato o uscito “illegalmente” da aree contingentate o zone demilitarizzate. Ma non avevo scelta: spesso questo è l’unico modo per accedere al fronte. L’autorità conosce solamente ciò che viene impartito dalla legge e non si cura di quanto questa legge possa essere considerata giusta o ingiusta se osservata e analizzata dall’esterno. Questa è una prerogativa da tenere bene a mente ogni volta che si parte».Fa parte del rischio professionale?«Fa parte della vita che ci siamo scelti. Ciò non significa che io la prenda alla leggera. Il livello di folle coraggio richiesto per viaggiare in un’area a elevato rischio senza armi o altre protezioni se non il proprio tesserino è altissimo. Presumibilmente è uno degli atti più coraggiosi e audaci che si possa immaginare. Non farei bene il mio lavoro, e non vivrei bene, se non cercassi di arrivare i più vicino possibile a quello che voglio raccontare».E cosa vuole raccontare?«La verità, soprattutto. Scevra da qualsiasi altra narrazione di parte e da qualsiasi interesse si formi attorno alle zone “critiche” del mondo. La guerra non è mai neutrale, e non si dovrebbe mai commettere la leggerezza di considerarla tale nemmeno a guardarla da fuori».Il carcere è un’evenienza frequente?«Sì. E sempre di più, secondo me, in un’epoca in cui i giornalisti sono sempre più presi di mira. Purtroppo».Chi li prende di mira?«Chiunque abbia un interesse concreto nella zona a rischio di cui ci si sta occupando. Chiunque abbia interesse a mantenere segreti certi fatti o a farne passare altri per veri. Chiunque, insomma, abbia il controllo».Quanto influiscono i servizi segreti sulla stampa?«Per mia esperienza, molto poco. Ma ci provano. Sono stato contattato da vari esponenti dei servizi, sia esteri che nazionali. Per la natura della professione che esercitano, i reporter di guerra entrano in aree a cui nessun altro ha accesso e tornano con informazioni esclusive. Ciò non significa necessariamente che si diventi strumenti utili per un servizio di intelligence: io non lo sono mai stato, nonostante gli approcci. Quando un governo però ha interesse a non divulgare informazioni, è tutta un’altra storia».Si può diventare merce di scambio?«È possibile, ma più come ostaggi che per le informazioni che si possono divulgare. Le informazioni sono strumentali, anche se spesso è la libertà di stampa a venire colpita incidentalmente ed è ciò su cui tutti si focalizzano. Alle autorità non importa veramente di cosa parliamo ma di come possiamo essere utilizzati nelle trattative».Qual è il ruolo dei giornalisti in questi casi?«Riferire la verità. Che spesso si trova molto distante dalle conferenze stampa e dalle sale di comunicazione, lontana dagli hotel e dai centri cittadini. È in prima linea, o il più vicino possibile alla prima linea, o dietro le linee nemiche. E ancora più spesso non riguarda i governi, i tribunali militari o le alte cariche militari, ma i non combattenti. Uomini, donne e bambini presi nel fuoco incrociato sui quali il conflitto ha l’impatto più radicale».Lei ha mai rischiato la vita?«Sì. Molte volte. Ma stranamente, la natura del lavoro spesso convince i giornalisti di essere quasi immuni alla paura, invincibili, inscalfibili, immortali: il potere della penna o, nel mio caso, della macchina da presa è totalizzante. Come se conferisse una certa invincibilità. È una sensazione illusoria, naturalmente. Siamo umani e come tali siamo fallibili, però viviamo della certezza che il nostro operato ci renda estranei al pericolo al quale andiamo incontro».Si viene criticati, per questo?«Come in tutte le professioni, soprattutto da parte di chi non conosce il mestiere. È molto facile passare per improvvisati quando il proprio compito è quello di riportare una realtà distante e per farlo si rischia la vita».Si passa per irresponsabili…«Di sicuro il mestiere dell’inviato o del corrispondente in zone critiche non è un atto di irresponsabilità di per sé. Può esserlo se il giornalista in questione non ha preso precauzioni, non ha esperienza, è caduto in una trappola senza badarci. Ma il fatto di rischiare la propria vita per la libertà di parola e per far emergere la verità, con il livello di esperienza e abilità che la maggior parte dei reporter di guerra di lunga data porta sul tavolo, è da encomiare. Occorre un’ottima dose di coraggio, ma anche una dose ben più sostanziosa di giudizio: bisogna comprendere il rischio, bilanciarlo con esperienza e probabilità, prendere decisioni sensate. Partire senza conoscere il paese, o pensando che basti semplicemente raccogliere le voci della gente per strada, fissare qualche appuntamento come se ci si trovasse a Londra o a Milano, è insensato, più che irresponsabile».Con tutte le precauzioni, si tratta di eroismo?«Molti dei miei colleghi, soprattutto quando ero un reporter televisivo, sono morti inseguendo un reportage o sono stati fatti prigionieri. Erano impegnati in incarichi che sapevano essere ad alto rischio, ma in cui la loro esperienza e analisi li avevano portati a concludere che il livello di rischio era accettabile, per via dell’importanza della storia. Dal mio punto di vista sono eroi».C’è un limite al rischio che si può correre per inseguire una storia?«Forse, ma non in termini di sicurezza personale. Per me di limiti non ce ne sono mai stati. Io e il mio fonico una volta siamo stati braccati damilizie totalitariste asiatiche ben oltre le linee del fuoco con qualche decina di ribelli combattenti per la libertà. In altre due occasioni ho recuperato campioni di armi chimiche e biologiche da remote zone di guerra per portarle nel Regno Unito e farle analizzare assicurandomi una storia, il che ha comportato un viaggio nel cuore dell’area in cui le armi erano state utilizzate. A raccontarlo oggi lei potrebbe dirmi che un limite lo vede, io ancora non lo trovo».Forse sta nella giustizia in nome della quale si opera…«Forse. O forse nella buona volontà che si mette per perseguire quella giustizia. Chi si sente nel giusto e rischia la vita, col tempo si vedrà riconosciuti i propri meriti». —