Corriere della Sera, 30 dicembre 2024
Putin, 25 anni da zar
«Chi?», se lo chiesero in molti. Quel giorno, 31 dicembre del 1999, gli occhi del mondo intero erano rivolti altrove. Guardavano al millennium bug, alla paura che i computer potessero leggere il 2000 come anno zero, cancellando tutti i dati raccolti fino alla mezzanotte dell’anno ancora in corso. Nessuno si aspettava l’annuncio di Boris Eltsin. Nemmeno i suoi compatrioti.
«Noi che siamo stati al potere per molti anni, dobbiamo andarcene» fu l’esordio del vecchio e malandato presidente, il primo eletto democraticamente nella storia millenaria del suo Paese. Parlando lentamente, chiese perdono per tutto quello che non era riuscito a fare. «Credevo che ci saremmo lasciati alle spalle uno stagnante passato totalitario per andare verso un luminoso futuro di progresso. Ma non è stato possibile». Era il passo d’addio. Se ne andava, l’uomo che otto anni prima aveva decretato la fine dell’Urss promettendo una rinascita economica, per poi soccombere all’alcolismo, alle malattie e ai «ragazzi», la cerchia familiare e oligarchica che aveva ormai preso il potere.
Appena finito il discorso, Eltsin si rivolse all’uomo che gli stava accanto. Magro, piccolo di statura, dall’aria anonima, appena nominato presidente ad interim. «Abbia cura della Russia», gli disse. Vladimir Putin non rispose. Era primo ministro da quattro mesi, ma rimaneva un perfetto sconosciuto, uno dei tanti capi di governo usa e getta di quella decade. Sono passati venticinque anni da allora. Il funzionario grigio del Kgb che la trasmissione satirica Kukly chiamava «nanetto», è rimasto al Cremlino più di tutti i suoi predecessori, secondo solo a Stalin. All’inizio, gli danno una mano gli attentati dinamitardi in serie che fanno centinaia di vittime. Il sospetto che fossero stati organizzati dai servizi segreti per indirizzare il consenso verso un loro uomo, che nel frattempo dichiarava che sarebbe andato a cercare i terroristi «anche nel cesso», non è mai stato provato.
L’ex agente Aleksandr Litvinenko, che sosteneva questa tesi, morirà avvelenato dal polonio a Londra. Putin consolida il suo potere liberandosi di tutti coloro che l’hanno aiutato a raggiungerlo. Il magnate Boris Berezovskij gli mette i suoi media a disposizione per le presidenziali del 2000, il vero punto di svolta, illudendosi di poter giocare al grande burattinaio. Finirà ben presto in esilio. Vladimir Gusinskij, proprietario dell’emittente Ntv, quella del programma satirico, viene arrestato. La sorte più brutale è quella di Mikhail Khodorkovsky, patron del colosso petrolifero Yukos, spedito in Siberia. Gli oligarchi sono un bersaglio facile; i russi li considerano giustamente responsabili del saccheggio dei beni pubblici. Colpirne qualcuno, per far capire il nuovo corso a tutti gli altri e intanto aumentare la propria popolarità.
Per far acquisire Yukos dallo Stato russo, il cancelliere tedesco Gerhard Schröder fa da garante di un prestito internazionale, definendo Putin un «democratico senza macchia». Sono molti coloro che la pensano allo stesso modo. «Diretto e affidabile, dagli occhi si può leggere la sua anima», dichiara George W. Bush dopo il loro primo incontro. Per amore o per affari, da Jacques Chirac a Silvio Berlusconi, i leader dell’epoca lisciano il pelo al nuovo Orso. Sono gli anni in cui lui stesso definisce la Russia come «parte inalienabile» dell’Europa. È il primo a chiamare Bush dopo l’undici settembre, dichiara la fine della guerra fredda, cita Pietro il Grande, che voleva Mosca sempre più vicina a Parigi e Berlino. Con poche eccezioni, va così fino al 2007.
Quando alla Conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera, Putin prende tutti a ceffoni, denunciando un piano di destabilizzazione occidentale dietro le proteste di piazza nello spazio post-sovietico vicino alla Russia come Ucraina, Georgia, Kazakistan. Neppure quel brusco risveglio fa deviare dalla linea di appeasement intrapresa dall’Occidente. Anzi. L’indifferenza con la quale all’estero viene accolto l’omicidio della giornalista Anna Politkovskaja rimarrà un caso di scuola in tal senso. L’anno seguente, al vertice Nato di Bucarest, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy bloccano la proposta Usa di fare entrare Georgia e Ucraina nell’Alleanza. Putin li ringrazia e tre mesi dopo invade la Georgia. A margine di quel vertice, rimarrà una frase pronunciata mentre cammina sottobraccio a Bush. «Perché insisti tanto? Dovresti capire che l’Ucraina non esiste».
Anche qui, poco importa. In Russia c’è stata la staffetta, Putin scala a capo del governo, al Cremlino sale il suo delfino Dmitri Medvedev. I peana internazionali su un nuovo corso liberale si sprecano. Nel 2012, l’ex presidente si riprende il Cremlino. Nella capitale si radunano migliaia di persone per contestare il passaggio di consegne. Putin è furibondo: «Rovinerò le loro vite». A guardare la fine che hanno fatto i leader di quella protesta, cominciando da Aleksey Navalny, la promessa è stata mantenuta.
Nel 2014, tocca all’Ucraina. «Quell’uomo vive in un altro mondo», dichiara sconsolata Merkel. Arrivano le prime sanzioni, ma anche il pressante invito di Barack Obama a Kiev: non dovete reagire sul piano militare, vi proteggeremo noi. Gli ultimi anni sono un piano inclinato verso l’attuale conflitto, ma sempre con un doppio binario, tra condanna e acquiescenza, fingendo di ignorare la storica ossessione del Cremlino per il territorio e per i propri confini.
Nel mondo di Putin, abitano infatti decine di milioni di suoi connazionali convinti o rassegnati al fatto che è lui a incarnare l’idea russa. Uno dei più grandi errori che l’Occidente commette è quello di pensare che il suo consenso sia soltanto frutto della propaganda. Il rimpianto Gleb Pavlovskij, suo primo consigliere e poi oppositore, sosteneva che il presidente era espressione di quella massa di persone «accomunate dall’attesa di una rivincita immaginata come la resurrezione di uno Stato che fosse finalmente rispettato».
Comincia tutto da lì. Dalla rovinosa caduta dell’Urss. Giocando sull’eterna paura del suo popolo di un ritorno all’epoca del disordine, e promettendo invece di restituire alla Russia la perduta grandezza, Putin ha sempre immaginato il futuro cercando di vendicare il passato. Il suo 25esimo anno al potere potrebbe essere quello decisivo per capire se riuscirà nel suo intento.