Tuttolibri, 29 dicembre 2024
La lezione di Susan: «Assecondare mai╗
«Grazie alla macchina fotografica, diventiamo tutti clienti o turisti della realtà». Ogni volta che vedo un dibattito sui social su una pizza consegnata a domicilio sotto la pioggia, io penso a Susan Sontag. Che è stata la prima in molte prese di posizione culturali, un settore nel quale essere la prima è importante persino più che avere ragione. La prima a dire che in Leni Riefenstahl non c’era solo la propaganda, ma anche un’estetica (e poi a cambiare idea). La prima a mescolare l’alto e il basso («Davanti a un quadro o a un oggetto di Jasper Johns è possibile provare sentimenti (o sensazioni) simili a quelli che si provano ascoltando le Supremes», scrisse nel 1965, e le venne rinfacciato più a lungo di quanto ad Angelo Guglielmi sia stata rinfacciata La piscina). La prima, anche, a codificare il modo in cui le immagini ci manipolano, e poi a cambiare in parte idea sullo stesso tema, in due testi, Sulla fotografia e Davanti al dolore degli altri, usciti originariamente nel 1977 e nel 2003, entrambi quindi prima del mondo di ora, in cui siamo sottoposti ogni minuto al numero di immagini che nel secolo scorso vedevamo in un anno.Sulla fotografia auspica un’ecologia delle immagini, ed esce nell’anno in cui in Italia arriva la tv a colori. In America c’era già da un po’, ma comunque: a stento quella, il cinematografo, le riviste. Non c’erano i telefoni con la telecamera, i social network, lo streaming, non avevamo YouTube in tasca: è difficile pensare a quarantasette (quasi quarantotto) anni fa come a un tempo in cui l’eccesso d’immagini ci faceva rischiare l’effetto-anestesia. «Nella stessa misura in cui creano la compassione, scrivevo, le fotografie contribuiscono a inaridirla. Ma è proprio così? Quando l’ho scritto ne ero convinta. Ma ora non ne sono più tanto sicura», avrebbe scritto nel 2003, sette anni prima dell’invenzione di Instagram.Più vediamo, più ci convinciamo di poter sapere, di poter immaginare – e invece. Oggi, che neanche “emozionale” e “evento” sono parole abusate quanto “empatia”, oggi sarebbe ancora più impopolare una Sontag che ci dicesse che è un’illusione quella di sapere com’è vivere qualcosa perché ne ho visto la rappresentazione. Oggi che le immagini servono a semplificare i consumi paraculturali d’un pubblico per cui due subordinate sono inaffrontabili, oggi che la vera egemonia è quella della semplificazione, al massimo possiamo permetterci un Byung-Chul Han che i pericoli di Instagram ce li metta in frasette predigerite altamente instagrammabili: «Si prende atto di tutto senza mai giungere a una conoscenza. Si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. Si bramano esperienze vissute ed emozioni eccitanti in cui però si resta sempre uguali».Nella biografia di Sontag scritta da Benjamin Moser, si utilizza una definizione di Elias Canetti che sembra pittata precisa su Sontag: l’intellettuale è qualcuno che riassume il proprio tempo e si scontra col proprio tempo. Poiché scontrarcisi fa vendere meno copie dell’assecondarlo, il proprio tempo, Sontag come ogni intellettuale rilevante non è mai stata in cima alle classifiche di vendita. È interessante che il benessere economico della parte finale della sua vita sia stato garantito da una delle più famose fotografe del Novecento, Annie Leibovitz. Le ultime foto di Sontag sono quelle del suo cadavere, scattate da Leibovitz e riunite in un volume che racconta Annie, non Susan: Fotografie di una vita, 1990-2005. La domanda che si fa chiunque racconti di sé è «Di chi sono queste storie»: se racconto dei miei amori, rubo un pezzo della loro vita raccontando la loro presenza della mia. Mi serve il loro consenso? E se ne vogliono invece raccontare loro? Se sono morti e quel consenso non possono darlo? Leibovitz in quegli anni era stata con Sontag, ma era anche morto suo padre, le avevano commissionato dei ritratti di Leonardo DiCaprio o di Bill Clinton, era andata a fare reportage di guerra. Fotografie di una vita tiene tutto insieme, d’altra parte è così che accade nella vita: mica c’è il conduttore di tg che dice «e ora cambiamo decisamente argomento».Se fosse stata viva, ha detto Leibovitz, forse Sontag non avrebbe voluto che le foto di lei morente venissero pubblicate, ma non lo era e quindi il problema della proprietà di quella storia e di quell’immagine non si poneva. Le immagini distorcono la volontà di chi è ritratto, ci penso ogni volta che qualcuno ritiene di fotografare un fattorino sotto la pioggia, stigmatizzando chi ha osato ordinare la pizza nonostante il meteo. Penso a quel che diceva Sontag della compassione davanti alle foto tragiche, quella compassione che ci fa sentire dalla parte dei buoni senz’alcuno sforzo, quella compassione che oggi chiamiamo empatia – oggi che non abbiamo nessuno di così disposto a scontrarsi col proprio tempo da spiegarci che non è una virtù, è semmai il compiacimento della virtù; oggi che siamo turisti del dibattito e clienti della fotogenia. Oggi che, naturalmente, di Sontag ricordiamo non le parole né le strazianti foto della morte, ma quant’era giovane e splendente, trentatreenne, sulla copertina della prima edizione di Contro l’interpretazione.