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 2024  dicembre 29 Domenica calendario

Un grazie a Susan Sontag


Era l’autunno del 1992, mia sorella viveva una vita grama, per una ricaduta nel “male incurabile” che l’avrebbe uccisa pochi mesi dopo. Andavo a trovarla, a Milano, il più spesso possibile, e sempre le portavo un piccolo regalo per ammantare la ricorrenza di quei viaggi addolorati d’un senso di festa. Una delle ultime visite mi presentai al suo capezzale con un libricino bianco, adornato di un quadrato rosso sotto il titolo: si trattava di Malattia come metafora di Susan Sontag. Fui molto criticata per la scelta di quel dono. Non si regala un pamphlet sulla malattia ad una persona malata. I malati vanno distratti. Mi scusai, imbarazzata, con mia sorella, mentre scartava il pacchetto. Mi ringraziò incuriosita e fu lei a telefonarmi, giorni dopo, entusiasta, citando il testo: «non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico». Mi disse che era stanca di sopportare metafore guerresche che la facevano sentire in colpa ad ogni crisi, ad ogni momento di ragionevole sconforto, quasi fosse un soldato inabile al combattimento e quindi destinato a morire malamente sul campo di battaglia o ad essere condannato alla pena capitale. Per codardia. Susan Sontag non si limitò a conquistare mia sorella, ma le si infiltrò nell’anima, nella mente, fino a modificare il suo modo di vivere il poco tempo che le restava.«È bello che l’intelligenza di un’altra donna mi parli ancora – disse – è come aprire una finestra nel buio».Ho scoperto dopo che qualcosa di simile era successo anche a Sontag: secondo il suo biografo non guardava mai fuori dal finestrino, né in macchina né in treno, né in aereo. Vietava di farlo anche a suo figlio. Pare che fosse per difendersi da qualcosa che non aveva ancora studiato, che non era stato chiosato e sterilizzato dal pensiero: il paesaggio. Nel 2004 il tumore da cui si pensava guarita da decenni, tornò a insediarsi nel suo corpo. L’oncologo le confermò che le restavano circa sei mesi di vita. Tornando a casa in macchina guardò, per la prima volta, fuori dal finestrino. «Wow» disse, sempre secondo il biografo. Anche lei stupita. Morì poco prima di compiere 70 anni. E nessuno dei suoi contemporanei, pur amandola, riuscì a definirla. Era una filosofa? Una scrittrice? Una polemista? Una attivista? Per me era soprattutto una stimolatrice di pensiero: dotata di una prodigiosa capacità di approfondire, ti contagiava con il suo istinto per l’analisi di tutto ciò che è complesso o rimosso. Sapeva cogliere «la tensione fra ciò che si è e ciò che si vuole raccontare di sé» e, per non finire lei stessa in quel groviglio indistricabile di vanità e modestia, eludeva ogni domanda personale. Sappiamo che aveva scelto un cognome che non era il suo, ma quello del secondo marito di sua madre. Sappiamo che sua madre era una alcoolista e che la sua infanzia non è stata delle più serene. Sappiamo che è nata e vissuta a New York, che ha avuto un marito e un figlio ma anche una compagna, la fotografa Annie Leibovitz. Sappiamo che è stata forse l’ultima pop star dell’intelletto, quando ancora salivano sul podio della celebrità i campioni e (più raramente) le campionesse del ragionamento. Sappiamo che era troppo appassionata per sintonizzarsi sul compiaciuto birignao dell’accademia. Non si contentava di studiare, lei, usava la mente come un grimaldello, le piaceva rischiare, fosse per difendere la qualità estetica di una regista che mise il suo talento al servizio del nazismo ( Leni Riefenstahl) o per scardinare ogni illusione sul trionfo del femminismo, come nel più significativo dei saggi ripubblicati da Einaudi con il titolo di Sulle donne. Vi si tratta della vecchiaia maschile e di quella femminile a confronto: «Nella nostra società la fierezza, la schiettezza e lo spontaneo rigoglio delle donne hanno vita breve. Dopo la giovinezza sono condannate a reinventarsi per difendersi dalle ingiurie dell’età. Quasi tutte le loro qualità fisiche considerate attraenti si deteriorano molto prima di quelle definite maschili… Il femminile è liscio, tornito, glabro, privo di rughe, morbido, poco muscoloso, l’aspetto dei giovanissimi, le caratteristiche dei deboli, i tratti degli eunuchi come ha osservato Germaine Greer, in realtà sono pochissimi gli anni in cui tale aspetto è fisiologicamente naturale e lo si può mostrare senza ricorrere a ritocchi e camuffamenti, dopodiché le donne si imbarcano in una impresa donchisciottesca per colmare il divario fra l’immaginario proposto dalla società e la reale evoluzione naturale».Invecchiare: due pesi due misure, il titolo del saggio, 1970 l’anno della prima pubblicazione.Una bibbia per tutte noi venute dopo. E non aveva ancora 40 anni quando lo scrisse. Per tutta la vita, Susan Sontag ha lavorato indefessamente, scrive Umberto Galimberti «contro l’uso dell’immaginario a scopi repressivi, contro le fandonie di tutti i poteri, da quelli religiosi a quelli politici, che fanno uso della metafora e dell’interpretazione per contenere le condotte e limitare la vita degli uomini». A vent’anni dalla morte di questa vestale della verità provo due sentimenti oggi poco comuni: ammirazione. E gratitudine. —