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 2024  dicembre 29 Domenica calendario

Il racconto delle spie nella corrotta Londra


Mister Herron, lei è una spia? Trattiene il sorriso, toglie gli occhiali, solleva lo sguardo. «No».
Sicuro?
Pausa a effetto. «Sono certo che questa sarebbe in ogni caso la mia risposta».
Perché se fosse uno 007, come i protagonisti dei suoi libri, dissimulato da timido scrittore di provincia, non lo ammetterebbe...
«Esatto», ride.
Sembra una domanda balzana, ma nel Regno Unito i critici letterari se la pongono concretamente; perché se è vero che Mick Herron, 61 anni, da Newcastle, è il nuovo venerato maestro della spy story britannica, allora è l’ultimo erede di una genia illustre: Ian Fleming, Graham Greene, John le Carré; giganteschi autori allo stesso tempo, in diversi ruoli, agenti di Sua Maestà. E questo ristorante di Oxford, con il camino accesso e gli addobbi delle feste, potrebbe essere il luogo di un appuntamento segreto.
Al momento, più banalmente, è il contesto in cui il creatore degli «Slow Horses», i «Brocchi» dell’MI5 esiliati nella Casa del Pantano, incontra «la Lettura» per raccontare la genesi (e gli sviluppi) di una saga oramai di culto; tra i libri (in Italia tutti pubblicati da Feltrinelli) e la serie di Apple Tv con Gary Oldman nel ruolo del capo dei balordi, Jackson Lamb.
Eppure al principio era un poeta.
«Dai versi si impara a pesare ogni parola attentamente e a dare grande importanza al ritmo; è qualcosa che faccio ancora, soprattutto nei dialoghi».
Più che immaginare i personaggi, ha detto, lei ne ascolta la voce. Come parla Lamb, per esempio?
«È una voce interna, non sento un accento o il modo in cui effettivamente suona. So quali parole userebbe; e lo so per tutti i miei personaggi. Le ripetizioni che farebbero, i tic verbali; nel caso di Lamb i giochi di parole in cui si diletta, il modo in cui trova spesso significati volgari in immagini quotidiane. Mi imbatto in una frase perfettamente innocente e so che se la metto in bocca a Jackson potrebbe avere un significato diverso. Oramai lo conosco da oltre 15 anni...».
Una casa con la compagna e i due gatti, un secondo appartamento per scrivere, ascoltando musica: funziona?
«Ci vado dalle 9.30 alle 16.30 circa. La musica jazz o classica moderna che fa da cuscinetto tra me e il mondo. Scrivere per me è avere una routine. La mia è questa. Sempre di giorno, mai di notte».
Senza wi-fi e senza smartphone...
Mostra il telefonino rudimentale che si porta dietro: «All’epoca in cui avevo poco tempo per scrivere, mi resi conto che se l’avessi perso sui social o a rispondere alle email non ci sarei riuscito».
Arrivato a Oxford per studiare, è rimasto qui «per inerzia», parole sue.
«Non avevo nessun altro posto dove andare. A Newcastle erano tutti disoccupati. E Londra mi sembrava troppo grande».
Ma a Londra ha lavorato per molti anni da editor, non è un caso, proprio nella zona del Barbican dove ha ambientato il Pantano: nonostante la vita da pendolare, un momento prolifico...
«Non scrivevo in treno, ma avevo diverse ore al giorno per guardare fuori dal finestrino: era la mia preparazione mentale. Quando tornavo a casa avevo circa un’ora di tempo, ero piuttosto stanco. Ma sapevo che cosa avrei scritto, perché ci avevo pensato molto».
Come è arrivato alla «detective» e poi «spy story»?
«Non riuscivo più a scrivere versi, ma avevo bisogno di un qualche sfogo creativo. Sono approdato ai polizieschi perché mi è sempre piaciuto leggerli. Ma soprattutto perché hanno una struttura, che io trovo necessaria: un inizio, una parte centrale e una fine. Era molto adatto a me. Sono poi passato alle storie di spionaggio perché volevo un numero maggiore di personaggi. E volevo scrivere libri più calati nella realtà politica».
La saga degli Slow Horses comincia a scriverla nella Gran Bretagna del 2008: c’è una ragione?
«Ho iniziato a pensarci dopo gli attentati di Londra del 2005 (56 morti e 700 feriti in una serie di attacchi kamikaze sul trasporto pubblico, ndr). Quando sono esplose le bombe, anche io ero in metropolitana come milioni di altre persone e ho capito bene come un attacco terroristico possa colpire tutti. Volevo scrivere di queste cose, ma non dal punto di vista di un insider. Ho iniziato allora a scrivere di spie che sono in parte al di fuori degli eventi, esiliate dalla corrente principale. Non sanno molto di quello che sta accadendo, ma al tempo stesso ne sono coinvolte. Il giorno degli attentati eravamo tutti coinvolti ma non sapevamo che cosa stesse accadendo, c’era quella sensazione. E poi c’erano la politica e l’economia: stavamo entrando in recessione, il crollo mondiale delle banche a causa di idiozia, corruzione e incompetenza. Anche di questo volevo scrivere, di fallimento».
Al debutto, però, i Brocchi non hanno a che fare con il terrorismo islamico ma con l’estremismo di destra. È una coincidenza che proprio nel 2008 il British National Party, di ispirazione neofascista, fosse in ascesa?
«Penso che fosse evidente che l’estrema destra iniziava a farsi sentire in questo Paese a un livello che non si percepiva dagli anni Settanta-Ottanta. Ritenevo che fosse il problema principale, e temo di aver avuto ragione. Il successo dei libri è coinciso con un cambiamento di umore nel Paese, che è diventato più evidente con la Brexit nel 2016. Rimpianto, delusione. Non solo dal punto di vista di chi come me ha votato per restare. Penso che molte persone che hanno votato per uscire dall’Ue non abbiano ottenuto ciò che volevano. Alcuni ne hanno tratto profitto, la maggioranza no. Se nel 2010 i Brocchi forse erano fuori posto, oggi sono a casa, in sintonia col sentire generale».
Il celebre «think tank» per la sicurezza e l’intelligence Rusi di Londra, partendo dalla lezione di le Carré – i servizi segreti sono il subconscio di una nazione – ha fatto di «Slow Horses» un caso di studio per indagare la psiche della Gran Bretagna.
«Le Carré voleva raccontare una nazione nel momento in cui aveva perso l’impero. Io non mi sono consapevolmente posto l’obiettivo di fare qualcosa di simile, è stato involontario. Solo dopo la Brexit ne sono più conscio».
Se non è una spia, diversamente da le Carré, come fa a conoscere così bene i meccanismi dell’MI5, il controspionaggio britannico?
«Invento. Ho letto storie di spie per tutta la vita. Non ho nessuna conoscenza interna. Non sono un agente segreto, ma ho lavorato in un ufficio, e in realtà descrivo soprattutto dinamiche da ufficio, società acquisite da aziende maggiori. E più è grande un’organizzazione, più è disfunzionale, disumana, meschina. Ci sono ideali nei miei libri, ma sono frequentemente corrotti dalle circostanze, dalla Realpolitik, ma anche dall’avidità, dalla pigrizia, dalla stupidità degli esseri umani».
Che rapporto ha con la serie tv tratta dai suoi libri?
«Ne sono entusiasta, penso abbiano fatto un lavoro splendido. Ho partecipato al tavolo degli sceneggiatori. Casting meraviglioso, ottima recitazione».
Che cosa ha apportato Gary Oldman al personaggio di Lamb? Pensa alla sua interpretazione quando scrive?
«Non subito, ma quando lo rileggo immagino Gary che rilegge le battute. Le espressioni del viso, la sua fisicità».
La serie è molto fedele ai libri, anche nell’ambientazione.
«Penso che abbiano progettato il Pantano in modo geniale, sembra davvero sgradevole come l’avevo immaginato. Si crogiolano nella sporcizia e nei rifiuti. Londra è una città bellissima, ma è anche infestata dai topi, squallida. È splendida vista dall’alto, ma è anche una delle capitali mondiali del riciclaggio di denaro, un posto moralmente corrotto, e la serie lo mostra. Con un buon equilibrio tra umorismo e dramma».
Ha un preferito tra i suoi personaggi?
«Ce l’ho, ma non lo dico, perché elimino i personaggi abbastanza regolarmente e non voglio che si pensi che ce ne sia uno al sicuro. E comunque potrei sempre cambiare idea e farlo fuori...».