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 2024  dicembre 29 Domenica calendario

Le balene ci diranno che abbiamo un problema


Un flebile segnale dal cosmo segnò l’inizio al nuovo millennio. La sonda Pioneer 10 dava inaspettatamente segni di sé dallo spazio profondo. Lanciata nel 1972 da Cape Canaveral, la sua missione era raggiungere l’orbita di Giove e mandare informazioni. La navicella, equipaggiata con una tecnologia di rilevazione per noi oggi preistorica, aveva imboccato la fionda gravitazionale e come il disco scagliato lontano da un atleta olimpionico si era gettata nel vuoto. La piccola creatura curiosa espulsa da un pianeta periferico raggiunse l’obiettivo ventuno mesi dopo, inviando i dati telemetrici richiesti. I costruttori si aspettavano come da programma di perderne progressivamente le tracce, ma la durata della pila al plutonio era stata sottovalutata. Accelerata ulteriormente da Giove, sorvolò Saturno, poi Urano, resistette a radiazioni, urti fotonici, perturbazioni gravitazionali, venne deviata da un oggetto non identificato all’altezza di Nettuno e nel 1983 puntò verso Plutone (che sarebbe stato declassato a nanopianeta nel 2006). Nell’agosto del 2000 smise di rispondere alle chiamate. Missione compiuta? Niente affatto. In una stazione radioastronomica di Madrid, il 29 marzo 2001, dalla provincia estrema del Sistema Solare il cuore meccanico di Pioneer 10 rispose nuovamente agli ordini. I suoi padri, invecchiati al Jet Propulsion Laboratory di Pasadena, piansero dallo stupore. Il glorioso ammasso di anticaglie aerospaziali americane giungerà alle porte di Aldebaran fra due milioni di anni. Nel 2003 le comunicazioni radio si interruppero di nuovo, forse per sempre.
Nel 1998 la pioniera era stata sorpassata, come distanza dalla Terra, da un’altra sonda intrepida, Voyager 1, che il 25 agosto 2012 superò per prima la fatidica linea di confine dell’eliopausa. Non dovrà obbedire più alle leggi di gravitazione imposte dal Sole e la sua dimora sarà per sempre lo spazio interstellare. Voyager 1 in questo momento si trova a 25 miliardi di chilometri dalla Terra ed è l’artefatto umano più lontano dalla casa madre. Nessuno può sapere se un giorno un essere intelligente avvisterà uno di questi nostri strani oggetti e ne raccoglierà i rottami sulla spiaggia di un altro mondo. In tal caso, troverà un piccolo disco d’oro, il Golden Record, sul quale gli scienziati coordinati da Carl Sagan incisero immagini, suoni di natura, musiche, saluti in molte lingue e versi di animali, tra i quali le registrazioni dei canti delle megattere fatte da Roger Payne.
Dal 2020 un’organizzazione di ricercatori chiamata Cetacean Translation Initiative sta cercando di utilizzare l’Intelligenza artificiale per tradurre le comunicazioni tra i cetacei. Megattere e capodogli infatti emettono suoni a varie frequenze, li articolano in canti, formano dialetti: insomma, potrebbe esistere una grammatica del balenese. Se fossimo capaci di identificare gli schemi linguistici di questi mammiferi e di condividere con loro un lessico, significherebbe che per la prima volta avremmo una vera conversazione tra specie, qualcosa di simile a un dialogo tra alieni (ma alieni inter-terrestri). Sarà una ferita narcisistica equiparabile a quelle che ci hanno spodestato dal trono del cosmo e della biodiversità. Dovremo infatti accettare ciò che questi meravigliosi animali avranno da dirci e tutto lascia supporre che non sarà piacevole. Ci chiederanno conto del perché li abbiamo cacciati per secoli con tale ferocia, conducendoli sull’orlo dell’estinzione. Oppure, chissà, scopriremo che la loro saggezza naturalistica istintiva è tale da commiserare noi poveri Homo sedicenti sapiens, che abbiamo costruito le nostre civiltà sullo sfruttamento della natura come se non ci fosse un domani.
Sul Golden Record della Voyager gli extraterrestri non leggeranno invece la scansione del genoma umano. Non c’era ancora. Inaugurato nel 1990, il Progetto Genoma Umano fu annunciato «in bozza» durante una discutibile conferenza stampa nel giugno del 2000 alla presenza di Bill Clinton e Tony Blair. La pubblicazione avvenne l’anno seguente, fu affinato nell’aprile del 2003 (l’anno del disastro dello Space Shuttle Columbia), ma in realtà la sequenza dell’ultimo cromosoma fu disponibile solo nel 2006 e se vogliamo includere anche le lacune rimaste e il cromosoma maschile Y si arriva al 2023. Quanto a ciò che il Dna produce (i molteplici trascritti a base di Rna), siamo ancora in alto mare. Il che ci rammenta che nella scienza prima di dire di possedere la conoscenza totale di qualcosa è meglio andare cauti.
L’esperienza di questi venticinque anni ci insegna ciò che sappiamo di non sapere. Era chiaro dagli anni Novanta, per esempio, che nella nostra galassia milioni di pianeti orbitano attorno ad altre stelle: dal 2001 si è cominciato a identificarli e a studiarli, con risultati meravigliosi. Allo scopo, nel 2009 fu lanciato il telescopio spaziale Kepler. Oggi conosciamo uno zoo di migliaia di pianeti, le cui peculiarità superano di gran lunga la creatività degli scrittori di fantascienza: gassosi; ghiacciati; liquidi; rocciosi; super-Terre; pianeti oceanici; sistemi planetari multipli, con una, due, tre, quattro stelle; pianeti che potrebbero avere atmosfere e acqua allo stato liquido, orbitanti nelle fasce abitabili della loro stella, a volte molto simile al Sole. Nel 2017 è stato osservato un intero sistema planetario analogo al nostro, nell’orbita della stella nana rossa ultra fredda Trappist-1, con una bella teoria di sette esopianeti rocciosi. Non c’è nulla di eccezionale nell’angolo sperduto di cosmo in cui ci troviamo.
Sappiamo di non sapere anche il numero di specie biologiche che vivono sul nostro di pianeta. In questi 25 anni si sono succedute molte stime contrastanti, perché le misurazioni sono difficili, ma la comunità scientifica è concorde nel ritenere che probabilmente il milione e mezzo di forme di vita sin qui classificate sia solo una parte minoritaria di tutte quelle esistenti. Benché si continuino a scoprire anche nuove specie di vertebrati, tutte le altre si nascondono negli abissi oceanici, nel mondo microbico e in quello dei funghi. Altrettanta incertezza permane sul tasso di estinzione della biodiversità causata dalle attività umane, ma persino le proiezioni più prudenti sono allarmanti e parlano di un ritmo di riduzione almeno dieci volte superiore a quello normale registrato nel corso dell’evoluzione. Quindi ignoriamo quante specie esistano e ignoriamo a quale velocità le stiamo sterminando. La somma di queste due ignoranze dà come triste risultato che sicuramente stiamo estinguendo ciò che ancora non conosciamo.
All’alba del millennio eravamo largamente ignari anche della biodiversità umana, cioè del numero di specie che si sono diversificate dopo la separazione del nostro ramo evolutivo, sei milioni di anni fa, da quello che darà origine agli scimpanzé. La sequenza di scoperte dai primi anni Duemila è impressionante. Nel 2000 venne alla luce in Kenya una delle più antiche forme di ominino, Orrorin tugenensis. L’anno successivo fu la volta di Sahelanthropus tchadensis, rinvenuto in Ciad. Nel 2003 fu annunciata la scoperta di Homo floresiensis, una sorprendente specie umana pigmea vissuta sull’isola di Flores, in Indonesia, fino a 50 millenni fa. Il rappresentante di un nuovo genere, più antico delle australopitecine, si aggiunse nel 2009: Ardipithecus ramidus. L’anno dopo in Sudafrica spuntò Australopithecus sediba, venne completato il sequenziamento del genoma di Neanderthal, si cominciò a sospettare che vi fossero stati accoppiamenti fertili tra loro e i nostri antenati usciti dall’Africa, e fu scoperta per via genetica una specie sorella di Neanderthal sui Monti Altai in Asia centrale: l’uomo di Denisova. Ma non era finita: altre conoscenze consolidate e insegnate a scuola stavano per cadere.
Nel 2014 (anno memorabile in cui il lander Philae si staccò dalla sonda Rosetta e atterrò sulla superficie della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko) a Sulawesi, in Indonesia, fu trovata la più antica espressione d’arte rupestre. Nel 2015 in Sudafrica fu rinvenuta l’enigmatica specie Homo naledi e in Etiopia un cugino di Lucy, Australopithecus deyiremeda. Lo stesso anno si scoprì che non fu Homo habilis a costruire i primi oggetti in pietra: una tecnologia litica di 3,3 milioni di anni fa (500 mila anni prima della comparsa del genere Homo, per quel che ne sappiamo) venne disseppellita nel sito di Lomekwi 3 sul lago Turkana in Kenya. Poi fu la volta della controversia attorno alle origini di Homo sapiens. Forse uscì dall’Africa a più ondate e prima di quanto calcolato sinora, anche se poi tutti i non africani di oggi discendono probabilmente dalla fuoriuscita di un singolo gruppo fra 80 e 60 millenni fa. Nel continente africano alcune popolazioni iniziarono a mostrare tratti tipici della nostra specie, per esempio a Jebel Irhoud in Marocco, già 300 mila anni fa. Nel 2018 fece scalpore la scoperta che una tredicenne, vissuta 90 mila anni fa nella grotta di Denisova, aveva padre e madre di due specie umane differenti: era per metà neanderthaliana e per metà denisovana.
La scienza di questo spicchio di secolo ci ha soprattutto insegnato che a volte non sappiamo nemmeno di non sapere, ed è l’aspetto più affascinante dell’impresa. Sono stati questi gli anni del dibattito attorno alle proprietà della materia oscura (2006-2007) e dell’energia oscura (in particolare nel 2011 quando fu assegnato il Nobel per la Fisica per la scoperta dell’espansione accelerata dell’universo), le quali da sole occuperebbero il 95% di tutto ciò che esiste. Il che significa che finora avremmo capito solo il 5% della realtà fisica. Eppure la forza dell’immaginazione rigorosa è grande, al punto da predire l’esistenza di entità fisiche non ancora osservate. Nel luglio del 2012 fu annunciata al Cern la conclusione vittoriosa del lungo inseguimento del bosone di Higgs, previsto dal modello standard della fisica delle particelle e teorizzato nel 1964. Tra il 2015 e il 2016 furono rilevate per la prima volta le onde gravitazionali, le increspature dello spaziotempo predette da Albert Einstein esattamente un secolo prima.
Da questi risultati stanno ora scaturendo nuove domande di ricerca e inedite possibilità osservative che feconderanno i prossimi venticinque anni. Ovviamente è impossibile condensare in queste righe un quarto di secolo di scienza, a cominciare dagli sviluppi delle terapie geniche e immunologiche contro i tumori (proprio nel gennaio del 2000 Douglas Hanahan e Robert Weinberg pubblicavano la «carta di identità» del cancro, con i suoi tratti distintivi). Dovremmo ricordare anche: la scoperta del grafene nel 2004; le esplorazioni robotiche su Marte; la generazione delle cellule staminali pluripotenti indotte, nel 2006, da parte del team di Shin’ya Yamanaka; l’espansione nel 2009 della tavola periodica con la sintesi del flerovio (numero atomico 114) e poi fino all’oganesson (numero 118); la creazione nel 2010 della prima cellula con un genoma sintetizzato in laboratorio; il lancio nel 2013 dei grandi progetti di mappatura delle aree cerebrali e del connettoma (lo stesso anno venne mangiato a Londra il primo hamburger di carne coltivata e pare che non sia morto nessuno); lo sviluppo degli organoidi; tra il 2012 e il 2015 la rivoluzione dell’editing genetico, cioè la scoperta di forbici molecolari che ci permettono di fare il copia-incolla del Dna (il cosidetto metodo Crispr). E tanto altro.
Molto era imprevedibile a priori, ma non la pandemia esplosa nel 2020. Sarebbe bastato seguire le ricerche scientifiche sulla Sars nel 2003, ricordare il sacrificio del medico italiano Carlo Urbani, prendere per buona la previsione di David Quammen del 2012 e tutti gli allarmi diffusi successivamente. Non li abbiamo ascoltati e di fronte all’emergenza pretendevamo soluzioni rapide dalla scienza. Ora se non altro abbiamo i vaccini a Rna messaggero, un altro dono inestimabile e non programmato della ricerca.
Quanto al futuro, meglio non fare previsioni al 2050. A occhio, sentiremo parlare ancora di rischio pandemico (è rimasto lo stesso), di batteri resistenti a tutti gli antibiotici, di Intelligenza artificiale, di computer quantistici, di fotosintesi artificiale, di fusione nucleare, di longevità, di altri segreti strappati al mondo dell’Rna.
Una sola previsione è davvero sicura: quella climatica. Il panel intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (Ipcc) esiste dal 1988. Nel 2001, mentre la Pioneer 10 si risvegliava, il terzo rapporto Ipcc spiegava la traiettoria in cui stavamo entrando, gli impatti del riscaldamento climatico, le necessità di mitigazione e adattamento. Non l’abbiamo preso sul serio, sono passati ventiquattro anni e così il 7 novembre scorso il programma di monitoraggio europeo Copernicus ha certificato che siamo già oltre il grado e mezzo: peggio delle peggiori previsioni. Una preoccupante chiusura del venticinquennio. Le sonde uscite dai confini del Sistema Solare sono in salvo, noi no. C’è da scommettere che anche questa volta, non essendo stati capaci di prevenire, chiederemo alla scienza di tirarci fuori dai guai.