Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Ormezzano, lo sport come teatro

TORINOPer restituire a Gian Paolo Ormezzano tutta la profondità che ci lascia bisogna levargli di dosso due parole: Toro e bulimia. Entrambe lo definiscono, l’illimitata passione calcistica e l’indomabile fame di vita, di storie, persone, cibo, idee, una curiosità senza fondo che lo ha spinto a raccontare e quindi a consegnarci una impressionante quantità di parole. Eppure, adesso che questo straordinario giornalista non c’è più, morto a 89 anni, è ora di apprezzare e capire la sua voce unica, da cui c’è ancora moltissimo da imparare.Il tono in cui chiacchierava di sé e quello usato per svelare lo sport sono due mondi diversi e ovviamente si incrociano e fanno di Gpo la firma che resta, la persona che era, però questa mole di emozioni, sempre condivise, non gli rende giustizia. Sono così tante, intense e sincere che ci sovrastano e si finisce per commettere l’errore di trovarlo empatico, simpatico, originale, tutte qualità, ma non il centro del suo mestiere, di una raffinatezza rara, di un’eleganza naturale.Subito a «Tuttosport» dove viene improvvisamente considerato il giorno in cui muore Coppi, «ero l’unico in circolazione», dove segue ogni evento possibile, compreso l’allunaggio del 1969, da Cape Canaveral, dove diventa grande e arriva a essere direttore, dal 1974 al 1979, solo che comandare non gli piace. Lui vuole guardare e trovare l’angolo giusto per restituire il quadro a chi legge. Non interpreta, segue la notizia, anche se poi si allarga nella memoria per dare tinte epiche. Vezzo di cui era straconsapevole e con cui giocava. Nel 1974 intervista Ali, a Kinshasa, su sponda dell’amico Minà che gli organizza l’incontro da casa e Ormezzano si affida. Vola dal Sudafrica, dove sta seguendo un altro delicato servizio in anni di apartheid, allo Zaire senza la conferma di un appuntamento. Oggi nessuno glielo lascerebbe fare o garantirebbe le spese, allora una telefonata tra sodali basta come prova e infatti l’incontro c’è grazie a Dundee, il coach di Ali che non avrebbe mai fatto da intermediario se Ormezzano, su consiglio di Minà, non lo avesse cercato con il vero nome: Angelo Mirena, originario di Cosenza. Appunti di viaggio in cui Gpo si perde dietro a infiniti dettagli, ma se si va a rileggere l’intervista rimane lucida e diretta, senza fronzoli o iperboli, potente anche adesso.Passa da «Tuttosport» a «La Stampa» dove fa l’inviato, l’opinionista, tiene tante rubriche (compresa quella sulla città di Torino, «Sportineria»), resta fino alla pensione e produce pagine in cui è facile trovare nitido il suo stile. Nel pezzo che celebra l’oro di Sara Simeoni alle Olimpiadi Mosca, nel 1980, il salto diventa evoluzione in una società che lui fotografa così: «Qualcosa ancora allo stato magmatico, per non dire aeriforme, e che si chiamava emancipazione femminile». Preciso, implacabile. In grado di troncare ogni falsa retorica e poi di scaldare quel successo incontenibile e dare da subito a Simeoni il ruolo che ha: apripista, esempio, la donna da seguire. Lei cambia la concezione della campionessa, spinge le ragazze a fare atletica e Ormezzano le tributa tutto in diretta, perché gli è chiara l’importanza della vittoria e il seguito che avrà.Per bilanciare la sfida del ciclismo tra Moser e Saronni scrive del dualismo: «Che barba e che pericolo», rifiuta di gonfiare con le banalità una contesa impossibile, scansa il rischio di alimentare la tigre. Non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di cavalcarla. Nessuno l’ha mai mandato a caccia di clic. Era nostalgico del suo tempo, allo sfinimento, anche se c’è da capirlo: ha attraversato gli anni d’oro della professione, lussureggianti per chi li ha vissuti e spremuti, fortuna di cui era consapevole. Se l’è goduta, con le grandi trasferte e i grandi alberghi, ma ha sempre tributato il talento alle generazioni venute dopo di lui. Gli era ben chiaro che il mestiere fosse diverso e che aveva comunque grandi interpreti, che sempre li avrebbe avuti. Lui li ha cercati fino a che è vissuto, fino agli ultimi giorni, con il suo «w noi», chiusura ai messaggi spediti a chi semplicemente riconosceva come collega. O compagno degno di conversazione.Ormezzano disegna il trionfo di Livio Berruti a Roma 1960 senza un aggettivo di troppo e poi lo stritola in un abbraccio mentre piange. Il giornalista in lacrime e l’atleta tranquillissimo. Due uomini cresciuti insieme. Ormezzano inizia il pezzo su Paolo Rossi condannato per scommesse con la frase, «sarà molto difficile gestire bene sino alla fine questa storia», perché era scivolosa e metteva in questione un uomo, un nome che meritava soprattutto sensibilità. Poi sì, di sicuro, Gpo era innamorato del Toro e incapace di misura, senza queste caratteristiche non sarebbe stato lui, ma chi era non è quel che ereditiamo grati. Un’attenzione splendida e la cura per la parola giusta nel contesto ideale, il rispetto per ogni essere umano di cui ha parlato. Pure lui riconosceva la differenza tra ciò che lo portava, ogni minuto, all’accesso, e ciò che delimitava il suo campo d’azione. Gli piaceva di più esagerare, ci piace di più leggerlo nella sua brillante capacità di essere essenziale, decisivo, necessario. Se ne è andato da eccessivo, resta da fondamentale. —