La Stampa, 28 dicembre 2024
Cervetti racconta: l’oro di Mosca nelle casse del Pci
Si è iscritto al Pci dopo aver incontrato Togliatti ed è stato uno dei più stretti collaboratori di Berlinguer. A ventidue anni il suo partito l’ha spedito a Mosca per studiare economia e, ventidue anni dopo, è stato lui, sempre per conto di quel partito, a chiudere i rubinetti dell’oro sovietico che lo finanziavano.Gianni Cervetti è tra i pochi superstiti comunisti nati prima della seconda guerra mondiale. Del Pci è stato militante, dirigente, deputato ed europarlamentare. Basterebbe metà della sua vita per trarne, con profitto, un intenso biopic. Ma Cervetti – 91 anni compiuti a settembre – è stato un comunista di stampo ambrosiano: «Uno che pensa quattro volte prima di parlare», dice di sé nel soggiorno di casa sulla circonvallazione interna di Milano. Pragmatismo e disciplina di partito lo hanno indotto a scegliere sempre vie discrete e laterali. Le stesse percorse, peraltro, nel pamphlet I ragazzi di via Rovello, pubblicato da poco da De Piante, in cui racconta alcune sue passioni: i libri, Dante, la musica, Machiavelli. E, ovviamente, la politica.Si ricorda la sua prima manifestazione pubblica?«Nel luglio del ’43. Avevo poco meno di dieci anni, eravamo sfollati nel Monferrato. Centinaia di civili si radunarono davanti alla sede del dopolavoro fascista per festeggiare la caduta di Mussolini. Provarono ad abbattere la porta: non ci riuscirono. Due di loro mi spinsero così attraverso un piccolo varco. Una volta dentro, lanciai dalle finestre i quadri del duce e del re. Quando la folla si disperse, mi rimase la sensazione di essere stato protagonista di un atto di sacrosanta ribellione».Era già comunista?«No. Mi iscrissi nel ’49, a Milano, in una sezione intitolata ad Antonio Gramsci».Cinque anni dopo, su richiesta del Pci, sarebbe andato via dall’Italia.«Studiavo Medicina quando venni convocato in una stanza della federazione. Ci trovai anche Aldo Lampredi, il partigiano che aveva guidato il plotone per l’esecuzione di Mussolini. Mi disse: “Andrai a studiare all’estero. Te lo chiede il partito"».E lei?«Rimasi di stucco, ma al contempo ne fui onorato. Cercai di capire almeno in quale Paese e in quale facoltà. Mi rispose: “Studi politici”. Avvisai solo la mia famiglia, poi partii, senza dire nulla».Nemmeno alla fidanzata?«Mi comportai da mascalzone, ma non avevo scelta: mi fu raccomandato di non parlarne con nessun altro».La destinazione era Mosca, la facoltà Economia politica.«Eravamo quattro italiani e un vietnamita. Nessuno di noi conosceva il russo, facemmo sei mesi di lezioni con un’insegnante con cui comunicavamo a gesti».Su quei banchi c’era anche Gorbaciov.«Quando entrai in università, lui la stava terminando. Lo conobbi bene solo nel 1985, dopo l’elezione a segretario del Pcus. Era sempre un fiume di parole, io un po’ meno».Nell’anno in cui arrivò a Mosca, il 1956, iniziò la” destalinizzazione”. Che aria tirava?«Il sabato andavamo a ballare con le ragazze, la domenica sentivamo i concerti dei grandi musicisti. Sembrerà strano ma in realtà, in quegli anni, a Mosca, in fatto di relazioni e di morale, c’era più libertà lì che in Italia».Dopo la laurea rientrò a Milano. Che città trovò?«Totalmente diversa da quella di sei anni prima. Il traffico intenso, il centro che si ampliava a dismisura, un’infinità di palazzi in costruzione».E il partito?«A guidare la federazione c’era Armando Cossutta. Con un discorso enfatico, mi fece capire che non mi volevano nell’apparato politico».Il motivo?«Lo capii solo dopo: ero stato troppo tempo a Mosca, non era opportuno che lavorassi lì».Detto da Cossutta, uno dei più filosovietici del partito…«Non aveva ancora posizioni così marcate. Ma, anni dopo, il ricordo di quell’incontro mi rafforzò nella convinzione che alla politica, come alla vita, si deve guardare sempre senza schematismo».Nel partito però ci tornò presto. Prima da segretario cittadino e poi da membro della segreteria nazionale: il più giovane scelto da Enrico Berlinguer.«Pochi mesi prima della nomina, nel ’73, il leader Pci venne a Milano con uno dei dirigenti, Salvatore Cacciapuoti. Fu lui, a un certo punto, a indicare una borsa a Berlinguer, che assentì senza dire una parola».Cosa voleva dire?«Che sarei andato a Roma a occuparmi dell’organizzazione e della cassa del partito. Non servì aggiungere altro».Come andò?«Mi gettai a capofitto per conoscere la situazione finanziaria, a cominciare dal cosiddetto “oro di Mosca": polizie e cancellerie di mezza Europa sapevano dei soldi che arrivavano dall’Urss, ma tutti facevano finta di niente».Tutti?«A cominciare dall’allora ministro dell’Interno Cossiga. Anni dopo mi raccontò che quando il nostro uomo, un certo Schiapparelli, andava a convertire i dollari che ricevevamo, i Servizi li acquistavano per verificare che non fossero falsi. E la questione finiva lì, nessuno ne parlava più».Quando fu deciso lo stop al finanziamento?«Nel febbraio del ’74. Eravamo a Mosca. Una sera, Berlinguer mi propose di uscire in giardino. Si gelava. Gli dissi: “Dobbiamo prendere le distanze da questi qui”. Assentì».Fu una svolta.«Ci vollero altri quattro anni. Quando comunicai la decisione a Boris Ponomariov, l’uomo che teneva i contatti con noi, disse: “È una vostra scelta”. Ma aggiunse: “In ogni caso, avete i soldi del petrolio’”. Lo guardai incredulo: “Quali soldi?”. E lui: “Ah, se è così, chissà dove vanno finire"».A cosa faceva riferimento?«Non riuscii a capirlo mai».Nel Pci lei faceva parte dell’ala riformista guidata da Napolitano. Quando lo conobbe?«Nel ’63, su una spiaggia delle Marche. Clio, sua moglie, era di quelle parti. Erano da poco diventati genitori: Giorgio, sorridente, teneva il primogenito Giovanni in braccio».Eravate i “miglioristi": non suonava come un complimento.«Non lo era. Ci chiamò così per la prima volta Pietro Ingrao. Napolitano non gliela perdonò mai».Quando, nel 2006, venne eletto capo dello Stato, lei seguì lo spoglio nel suo studio.«Appena raggiunto il quorum, mi commossi. Giorgio mi guardò e disse: “Fuori i piangenti!”. Ovviamente scherzava».Che giudizio dà di Putin?«Molto critico. È stato uno dei frutti della presidenza di Eltsin, un vero disastro per la Russia».Nel suo ultimo libro racconta la sua passione per Dante.«Ereditata da mio fratello. Nel mio studio ho più di duecento edizioni della Commedia».Quale dei sette vizi capitali, rievocati nei suoi versi, è più pericoloso in politica?«La superbia».E nella vita?«L’invidia. Entrambi, in modo diverso, si distaccano dalla realtà e dalle sue istanze. Un errore imperdonabile». —