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 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Le riforme all’italiana del centrodestra


Le chiameremo riforme all’italiana, le riforme che si fanno ma non si dicono e aggiustano con la creatività e l’arte di arrangiarsi partite politiche giudicate troppo complicate da risolvere altrimenti. La mannaia calata in Senato sulla legge di Bilancio ci ricorda che il bicameralismo perfetto è stato abolito da un pezzo. Almeno dal 2018 la manovra economica – la madre di tutti gli impegni parlamentari – è discussa e votata solo da una Camera: l’altra si adegua via voto di fiducia. Funziona a turno. Un anno di qua, un anno di là. Un anno partono e decidono i deputati, l’anno dopo i senatori. Anche la protesta si fa con paradossale rotazione. L’opposizione di sinistra ieri, alla vigilia dell’approvazione definitiva a Palazzo Madama: così non si può continuare, umiliante e grave, ennesima pagliacciata. L’opposizione di destra l’altro ieri, quando governavano gli avversari: calpestati i diritti, calpestata la democrazia, intollerabile, si vergognino.L’abolizione del bicameralismo perfetto non è la sola scorciatoia che la politica ha trovato per rattoppare un sistema istituzionale perennemente inceppato. Abbiamo da tempo instaurato un premierato di fatto, con gran parte del lavoro legislativo sostituito dalla decretazione d’urgenza, e cioè dalle decisioni di Palazzo Chigi che poi il Parlamento rincorre col fiatone, obbligato a convertire entro sessanta giorni. La media di tre decreti al mese è stata la regola per Giorgia Meloni, Mario Draghi, Giuseppe Conte, ma pure andando a ritroso non è che cambi tanto. Metà delle leggi varate dal potere legislativo sono in realtà decreti convertiti, cioè iniziative del potere esecutivo.La fantasia delle maggioranze ha fatto il resto: abbiamo decreti Omnibus dove si frulla tutto, decreti Milleproroghe dove si dilaziona tutto, e ovviamente i decreti-manifesto che ogni premier ha intitolato a sua gloria, Aiuti, Sicurezza, Dignità, Innovazione, Buona Scuola, Salva Ilva. E pure lì una sospetta indignazione a ritmo alternato: il decreto è prepotenza, regime, quando lo fanno gli altri e decisionismo benedetto quando lo fai tu.Le riforme “di fatto”, si dice, umiliano il Parlamento. Ci vorrebbero riforme autentiche, codificate, inoppugnabili, non soggette alle ricorrenti accuse di tradimento della democrazia e della Costituzione. E tuttavia nessuno è mai riuscito a fare queste mitologiche riforme vere, anzi: chiunque ci abbia provato è stato respinto con danni. Allo stesso modo risulta difficile condividere il rimpianto per i bei tempi della doppia lettura della legge di bilancio, che sicuramente rispettava con maggior rigore le regole della nostra democrazia ma non era certo il paradiso. L’espressione più usata per definire quel tipo di manovra, nella Prima Repubblica, fu “assalto alla diligenza” e rende bene l’idea: una sarabanda di Sioux scatenata per conquistare assunzioni a botte di diecimila, pezzi di autostrada, soldi alla banda del paese di Tizio, sedi alla filarmonica amica di Caio.La chiusura del dibattito di ieri in Senato ha avuto comunque un suo dato di novità, le forse-dimissioni (la maggioranza nega che ci siano state) di Guido Liris (FdI) dal ruolo di relatore della legge di Bilancio. Si è indignato per la cancellazione del dibattito sugli ottocento e passa emendamenti e ha dettato alle agenzie una accorata richiesta di tornare al bicameralismo realizzato. L’abilità italiana di produrre paradossi ha fatto così un nuovo salto di qualità. Non si protesta a turno solo contro gli avversari ma pure contro se stessi, e alla fine la cosa chiara è una sola: le riforme vere, scritte nero su bianco, forse converrebbe farle solo per risparmiarci questo annuale teatrino. —