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 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Le vedove dell’Isis

Kobane: chi li può dimenticare i mesi furenti della battaglia? Il mondo che tremava per il dilagare – sembrava inarrestabile! – dei forsennati del califfo Ibrahim, gli apostoli della fine della Storia; e loro i curdi, i tenaci guerrieri curdi che non retrocedevano di un metro, combattevano casa per casa in quello scenario che sembrava esser stato frantumato da un aratro che aveva scavato in profondità ed era passato in lungo e in largo su quella terra.Nelle foto balzavano fuori dalle trincee, i visi smorti, sporchi, spossati dalla mancanza di sonno e dalla battaglia. In faccia c’erano i demoni della guerra santa, ma loro mostravano i denti a quel nemico. Questi mesi a cavallo tra il 2014, anno primo del nuovo Califfato che si proclamava millenario e il 2015, inizio della sua provvidenziale discesa agli inferi, sono diventati, libri, film, fumetti. Ma non sembra siano diventati per noi memoria e una politica che non nasconda nauseabondi sottintesi. Quattordicimila morti sono scritti in quelle tre sillabe e decine di migliaia di feriti. Erano popolari in quelle settimane i curdi, facevano proprio un bel lavoro, facevano quello che noi paralizzati dalla pavidità e dall’egoismo non volevamo affrontare limitandoci a fare lo zapping con il Tragico. Sembrava, ai curdi, che fosse finalmente arrivata l’epoca in cui avremmo, riconoscenti, saldato i conti e scoperto le carte. Senza quel sacrificio lo stato islamico sarebbe ancora lì, variante inedita dell’arsenale delle barbarie possibili, e non ridotto a zone marginali dove peraltro è pronto a rialzare la testa.È dopo Kobane che si doveva saldare il conto che da tempo sembrava scaduto in prescrizione capovolgendo finalmente una storia che è una maledizione di epoche disperse e perdute. È vero. Il filo degli anni e delle battaglie li ha resi riservati, pazienti, prudenti persino. La guerra è sempre stata attorno a loro ovunque, sempre la stessa, sempre confusa, quasi sempre inutile. Sempre implacabile nel rendere bugiarda ogni promessa, ogni documento scritto. Guerre barbare per noi. Guerre di resistenza, guerre rivoluzionarie per loro. Hanno imparato con le loro divisioni interne a essere diffidenti, a detestarla la guerra, anche se sanno che è odiosa e necessaria.Parlare con i curdi è sempre una esperienza profonda, al di là dell’interesse per le loro sperimentazioni politiche e le loro coraggiose terze vie in una parte del mondo in cui quello che conta è la pura violenza. È gente che ha affrontato prove in cui devi trovare il tuo posto esatto, non importa se tu sia stato o no obbligato a imboccare quel cammino.Storia vecchia? No. Silenziosamente i curdi continuano a essere la nostra trincea avanzata contro il progetto mai cancellato del totalitarismo islamico. Con l’appoggio poco più che simbolico di un migliaio di soldati americani, i superstiti della Grande Ritirata dal vicino Oriente, i tre milioni di curdi siriani si battono per noi. Tengono a bada la rinascita silenziosa ma evidente delle milizie del califfo (il terzo? Il quarto? L’istituzione sopravvive agli uomini, brutto segno di solidità) sulle rive dell’Eufrate. E fanno da carcerieri da otto anni, sempre più di malavoglia ai seimila miliziani di una quarantina di nazionalità fatti prigionieri con le loro famiglie ad Al-Hol, ai confini con l’Iraq. Che nessuno vuole perché ne abbiamo paura, noi eterni apostoli dell’impero del Bene. Un Campo che ha posto insieme ad altre grandi vergogne del nostro tempo, della nostra ignavia. Dove periodicamente scoppiano furiose e pericolose rivolte, domina la violenza e dove nella miseria vengono allevate, dai dottori jihadisti in disperazione, le future fanterie del Califfato furibonde di vendetta. Ieri le donne si sono ribellate, esigono di esser liberate: «I jihadisti hanno conquistato il potere a Damasco. Che facciamo ancora noi qui?». Ecco altri che hanno fiducia in Al-Joulani anche se per ragioni opposte a coloro che credono alla sua conversione democratica. Scenari diventati secondari per noi, metropoli del mondo, teatri di ombre. Come se ritirandoci ci fossimo portati via la Storia come un bagaglio.E ora? La caccia al curdo è di nuovo aperta e questa volta la danno jihadisti a libro paga di un fedele membro della Alleanza atlantica, la lega militare delle democrazie, il braccio forte dei diritti umani. Ci sono molti che vogliono far pagare ai curdi le innumerevoli fatture in sospeso della Siria dove la fine del secolo degli Assad ha lasciato un enorme spazio vuoto. In attesa di verificare le promesse di Al-Joulani che si proclama il jihadista imperfetto. A dare la caccia ai curdi è come sempre la Turchia di Erdogan, il burattinaio della marcia su Damasco, un altro che nel caos, come gli islamisti radicali, dispiega tutti i suoi talenti e le sue smodate ambizioni di doppiogiochista, di inventore di trame e chimere.Schiantare l’autonomismo curdo in Siria significa per lui indebolire il partito curdo turco con cui il micro sultano è permanentemente in stato di guerra. Per allargare la zona di sicurezza oltre frontiera (metafora con cui oggi si definiscono le invasioni) Erdogan usa i mercenari che ha reclutato come una Wagner da esportazione, la cosiddetta “Armata nazionale siriana”, bande islamiste arruolate un po’ ovunque tra cui reduci del Califfato. Li ha mandati a erodere lo spazio curdo nell’Est della Siria, costringendo i curdi a trincerarsi a Kobane. Una fascia di trenta chilometri garantisce che il Pkk non avrà un santuario in cui rifugiarsi in Siria.E poi Erdogan vuole rimandare a casa almeno una parte dei quattro milioni di siriani che ha ospitato durante la guerra civile ma che ora pesano sulle sua economia derelitta e soprattutto sugli umori dell’elettorato. Le case, i negozi, i campi dei curdi gli servono per trasferirvi i rifugiati arabi, quelli poveri, quelli che in Siria erano contadini. Lui si terrà i ricchi, i profughi che portarono con sé denaro che hanno investito generosamente in Turchia. Non tutti i profughi sono uguali. —