la Repubblica, 28 dicembre 2024
Gran Sasso, una lezione di solidarietà
«Ci sono luoghi, e per fortuna sono ancora tanti, in cui l’ambiente naturale è più forte dell’uomo. Se là si verifica un imprevisto, sopravvivere è difficile. Questa consapevolezza non è però sufficiente a escludere l’avventura dentro l’ambiente originario dalle nostre attività: a spingere l’essere umano in montagna, o nel mare, è la passione, sinonimo dell’amore. Simili elementi, gli unici a dare un senso all’esistenza, giustificano la frequentazione delle aree che comportano un rischio».Hervé Barmasse, 47 anni di Valtournenche, alpinista e guida di livello internazionale, ha seguito a distanza la tragedia sul Gran Sasso.«Ogni incidente – avverte – è un caso unico da analizzare con calma e solo quando tutti gli elementi si chiariscono. Vanno evitate le conclusioni affrettate e la tentazione di puntare il dito contro le vittime. Anche gli alpinisti più prudenti e più esperti sono esposti a fattori imprevedibili, o irresistibili».Che idea si è fatto di quanto accaduto?«Prima di tutto va sottolineato un punto di vista forse personale, ma che è l’elemento cruciale di questa tragedia: a me risulta che uno dei due alpinisti ha avuto un problema e che il compagno è rimasto con lui. Se confermato, questo è lo spirito dell’alpinismo: il primo soccorritore è chi si trova con te, il primo anello della cordata. Un compagno non ti abbandona: una lezione per tutti».Ma cosa può essere successo?«Se a un infortunio segue una bufera di neve, in assenza di un riparo le possibilità di sopravvivere si riducono. In alta quota, oltre alle basse temperature, il vento fa la differenza».È giusto mobilitare decine di soccorritori, come già avvenuto per il salvataggio della speleologa intrappolata nell’Abisso Bueno a Fonteno, esponendoli ad alti rischi?«Il soccorso, in montagna e in mare, è un’originaria legge non scritta. Si va incontro al prossimo, sempre, senza considerare le cause dell’emergenza, o l’origine delle persone. Il valore della vita viene prima di ogni altra opportunità».Anche nel caso di evidenti imprudenze?«Non è questo il caso. Le vittime erano alpinisti esperti, preparati e ben equipaggiati. Si soccorre però anche il turista con gli infradito sul Monte Bianco: a fare la differenza dovrebbe essere la considerazione delle conseguenze altrui dell’irresponsabilità personale».Cosa intende dire?«La mia imprudenza espone al rischio chi mi soccorre e può sottrarre un aiuto tempestivo a chi ne ha bisogno senza alcuna colpa. Pagare l’intervento non basta a compensare la responsabilità morale».Condivide il coro di condanna via social, che tende a colpevolizzare chi si avventura in luoghi estremi?«No. La caccia al colpevole è un esercizio sterile. All’origine di ogni incidente c’è sempre qualcosa che non ha funzionato: un imprevisto naturale, un errore umano, una vulnerabilità fisica, un deficit di esperienza, o la somma di più fattori. Può capitare ovunque: il punto è che se succede in circostanze estreme non ti salvi».Come si può abbassare la soglia del rischio?«La valutazione del meteo e delle caratteristiche del luogo sono essenziali. Non basta guardare i siti con le previsioni del tempo, o le mappe sul telefonino: le decisioni vanno prese sul posto, considerando la realtà del momento dopo essersi confrontati con chi frequenta quel posto ogni giorno. Devo sapere chi sono e come sto, ma non va sottovalutato il cambiamento climatico».Pensa che il surriscaldamento del clima abbia avuto un ruolo in questa tragedia?«È un elemento da analizzare con calma. Il Gran Sasso si alza tra due mari surriscaldati, la pressione cresce e bufere violente si scatenano con frequenza maggiore. Una tempesta di neve in dicembre non è senza precedenti, ma ciò a cui abbiamo assistito è un evento inconsueto anche per la sua durata».Quanto accaduto era dunque inevitabile?«Non gioco il derby qualunquista tra colpevolisti e innocentisti da tastiera. Anche per rispetto verso i famigliari delle vittime, prima di esprimere un’opinione occorrono la certezza dei fatti e il tempo per analizzarli. In termini generali, a chi va in montagna, si può consigliare prudenza».Cos’è la prudenza?«Un mix di timori coniugati in attenzioni. Non esiste un protocollo assoluto, ognuno sa qual è il proprio.Importante è valutare sul momento e sul posto le condizioni ambientali e quelle personali, contemplando sempre la pratica della rinuncia. Le montagne non si spostano, tornare è sempre possibile».La certezza del soccorso e l’evoluzione dei materiali favoriscono la sottovalutazione del rischio?«A livello razionale no, nel subconscio non si può escludere. In Himalaya, a differenza che sulle Alpi, oltre una certa quota so che nessuno verrà a salvarmi e la mia concentrazione su ogni dettaglio è massima. Più che i materiali può oggi risultare decisivo l’approccio cronometrico: si tende a velocizzare l’escursione, riducendo all’essenziale il peso di indumenti e attrezzatura. In caso di imprevisto i tempi di resistenza si riducono».Quale consiglio dà a chi va in montagna senza essere un professionista?«Accumulare esperienza con calma, senza superare i propri limiti. Nei momenti cruciali è lo spessore degli eventi su cui abbiamo ragionato a offrirci l’opportunità di restare vivi».