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 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Pedullà maestro riluttante

Fra le tante cose che ho provato a imparare da Walter Pedullà, più leggendolo in questo caso che ascoltandolo a lezione alla «Sapienza» – come a lungo ho fatto, una vita fa – c’era il genio dei titoli. Una volta, raccogliendo alcuni degli scritti su tre dei suoi fari, Landolfi Gadda e Savinio, lo intitolò proprio I titoli : e solo quelli in effetti, di quei grandi, commentava (se il termine è giusto: quel suo modo di prendere un sintagma dei «suoi» autori, e variarlo all’infinito, apparteneva forse più alla logica della musica che a quella della letteratura). Tanti i suoi memorabili: Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia, L’estrema funzione, Alberto Savinio narratore ipocrita e privo di scopo, Sappia la sinistra quello che fa la destra, Gadda il narratore come delinquente, Giro di vita, Il mondo visto da sotto ecc. Ma quello che preferisco suona Il vecchio che avanza.
È un libro del 2009, dunque Walter doveva ancora compiere ottant’anni, e tanto ancora avrebbe detto e scritto (un’intervista che gli feci in quel compleanno si concludeva con la frase «finché c’è paura c’è speranza»; se in questi ultimi tempi tanto s’è temuta una fine che si sapeva imminente, ora questa paura s’è avverata e dunque è cessata – con quel che consegue), ma suonava già come un congedo. C’era la polemica su una politica che si presentava come «il nuovo» eppure tutto voleva, già allora, tranne che «avanzare»; ma era soprattutto un autoritratto generazionale. Epocale, anzi. Appresa la notizia della sua morte, con un’altra allieva, Siriana Sgavicchia (che ha raccolto il testimone di Walter prendendosi cura d’uno degli autori a lui più cari, Stefano D’Arrigo), ci siamo detti che con lui se ne va definitivamente pure la nostra giovinezza; ma è vero soprattutto che ci tocca finire di salutare, oggi, quel Vecchio sempre Avanzato che è stato il Novecento: il tempo che mai ha avuto paura di avanzare, e del quale abbiamo fatto in tempo a conoscere, in questo quarto di secolo nuovo e abbastanza orrendo, solo gli avanzi – tanto più appetitosi perché si sa bene che sono gli ultimi.
«Avanti!» si chiamava la testata che lo tenne a battesimo come critico militante, all’inizio degli anni Sessanta; e una delle favole d’identità preferite da Pedullà era quella del personaggio di Palazzeschi quasi suo omonimo, Perelà: che alla fine del Codice a lui intitolato rivela che sotto le sue scarpe c’era scritto «Et ultra!». Avanzato era il Novecento che ha amato, e ci ha insegnato ad amare: tanto in senso politico che formale. La passione per le avanguardie era – ha detto bene Giulio Ferroni – quella per «un mondo abitato dalla gioia e dal desiderio, un mondo collocato “più in là”, ma senza perdere le cose che anche qui, nonostante tutto, ci fanno amare la vita».
Il mondo «di qua» lo conosceva a menadito; non lo ha mai esecrato moralisticamente, ma neppure cinicamente idealizzato. Il pallone di stoffa – la bella quanto sorprendente autobiografia uscita nel 2020, ai suoi novanta dunque – quasi tanto spazio quanto alle passioni letterarie riservava alla sua esperienza politica, cioè al suo modo d’intendere la politica culturale. Socialista di sinistra da sempre, per sedici anni in CdA e per sedici mesi presidente della Rai fra il 1992 e il 1993, ne ha viste di tutti i colori e tante, se non tutte, ne ha raccontate: con un senso quasi plastico della realtà che sorprese appunto chi ne conosceva i gusti, in arte, tutti invece all’insegna dell’inutile, dell’eccessivo, del privo di sco po. E infatti ha speso le sue energie in tante intraprese editoriali (dalla mitica Cooperativa Scrittori, coi reduci del ’63, che negli anni Settanta esordiva stampando le migliaia di pagine della relazione dell’Antimafia), spesso destinate a perderci, ma mai ideologicamente votate a farlo. Grande lezione pure questa.
Ha insegnato tanti anni. Che cosa esattamente abbia insegnato, e che cosa dunque possa forse in parte aver appreso, mi è difficile dire. Potrei dire un gusto – ma quello non s’insegna, semmai lo si contagia. In questo davvero è somigliato al suo mitologico maestro, Giacomo Debenedetti, i cui detti e contraddetti non era mai pago di ripetere, come laicissimi mantra. Inimitabili entrambi, e infatti fra loro diversissimi, non hanno lasciato in eredità alcun metodo; hanno mostrato però, a chi ha avuto la fortuna di vederli in azione, che un’opera certo è fatta di scritti, ma anche di atti, comportamenti, prossemiche. Chi ha ritratto questo impenitente disintegratore di ogni retorica, enfasi, seriosità (e lo hanno fatto anche scrittori importanti), lo ha fatto nelle vesti d’un giocoliere della parola, d’un palazzeschiano fumista o saltimbanco magari. Insegne connotate tutte da quella che sempre è restata la sua bandiera: il sorriso. Di volta in volta giocoso, beffardo, persino saggio: con qualcosa di socratico o forse di orientale – dote, questa, davvero inimitabile. Un aneddoto che amava raccontare, degli anni caldi alla «Sapienza», è quello dello studente contestatore che, per dimostrare lo svuotamento dei linguaggi contemporanei, gli annuncia una tesi fatta tutta di pagine bianche. Lui allora gli raccomanda di non trascurare le note, però. Va bene fare i baffi alla Gioconda, ma farlo più d’una volta non è il caso. Era questa la cifra, appunto ironica, del suo modo obliquo di accompagnare ogni avanguardia senza mai aderire a nessuna (non è detto che queste apprezzino).
Sorride anche in una fotografia straordinaria, uscita sulla più bella delle riviste che Pedullà non s’è mai stancato di promuovere, «Il Caffè illustrato». Si vede un altro Vegliardo alquanto Avanzato, Elio Pagliarani (forse il suo più grande amico), leggere con fatica i suoi versi in un ambiente poco illuminato, e allora l’amico critico accorre in suo soccorso porgendo la fiamma d’una candela: un po’ come nella favola di Amore e Psiche che, riletta da Savinio, è stata un’altra di quelle predilette dal Pedullà saggista d’invenzione. C’è tutto il senso della disciplina che non ha mai tradito, la critica appunto, ma forse anche qualcos’altro. Cercare il senso della poesia è come cercare quello della vita. Si va a caccia della pantheram redolentem di dantesca memoria, che fa sentire il suo profumo per ogni dove, senza che nessuno possa dire di averla catturata una volta per tutte.
Ed è per questo che tocca continuare sempre a chinarci, sulle sue tracce, con un lume in mano: così almeno rischiarando la strada che andiamo percorrendo. Nulla ci garantisce che mai la troveremo davvero, ma ci tiene in vita sapere che la stiamo ancora cercando.