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 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Alessia Piperno, io sopravvissuta al carcere di Teheran


«Non riesco a pensare ad altro». Alessia Piperno sa che cosa vuol dire essere rinchiusa in una cella di Evin, il carcere iraniano dove, dal 19 dicembre, si trova la giornalista Cecilia Sala. «Appena mi hanno informata che era stata presa, sono ripiombata al 18 settembre 2022». Quella è la data in cui le guardie della Repubblica islamica hanno arrestato la travel blogger di Roma per le strade di Teheran: «Avevano appena ucciso Mahsa Amini, l’atmosfera era incandescente. Sono rimasta in quel posto 45 giorni».
La storia di Sala ricorda la sua.
«Per certi versi sì, anche se io non sono una giornalista. Mi stupisce che le abbiano dato il visto, molti reporter occidentali faticano ad averlo: in Iran non sono ben visti».
Ora Sala si trova rinchiusa in una cella d’isolamento. Anche lei?
«No, mi ci hanno portato in un secondo momento perché continuavo a gridare di farmi chiamare casa. Le guardie dicevano che davo fastidio alle mie compagne».
Come l’hanno arrestata?
«All’inizio mi hanno detto che non mi avrebbero arrestata. Mi hanno rassicurato che mi avrebbero solo fatto delle domande per questioni di sicurezza e che sarei stata rilasciata dopo poche ore».
Poi?«La mattina dopo è iniziato il primo interrogatorio che è durato circa tre ore, ma non mi hanno sfiorata. In quel mese e mezzo di detenzione mi hanno interrogato molte volte: sessioni estenuanti. Mi chiedevano di dire cose non vere, di firmare documenti».
Che cosa vuol dire essere una prigioniera italiana, europea, a Evin?
«Contro di noi almeno non alzavano le mani, non ci toccavano, anche se non ci risparmiavano le torture psicologiche. Una volta mi hanno detto che era morta mia madre, un’altra che dovevo rimanere lì per dieci giorni. A differenza di Sala mi era stato concesso di sentire la famiglia solo due settimane dopo».
Anche a lei era venuto a farle visita l’allora ambasciatore Giuseppe Perrone?
«Dopo quindici giorni. Ricordo che non lo potevo vedere in volto: ci coprivano sempre gli occhi».
Cioè?
«Appena potevano ci bendavano. Durante il tragitto per portarti dentro, durante gli interrogatori, ed è successo anche con l’ambasciatore. In quell’occasione mi era stato imposto di non fare domande e di rispondere solo a quello che mi chiedeva lui, categoricamente in inglese. Mi aveva portato una valigia con beni di prima necessità che non mi sono mai stati consegnati al di fuori di due paia di mutande e due calzini. A Evin ti danno soltanto una piccola saponetta, un asciugamano e uno spazzolino».
Come passava le sue giornate?
«Guardando il soffitto. Sono finita nel reparto 209, dove non hai accesso a nulla, nemmeno a un libro. È il braccio delle prigioniere politiche, dove si trova Narges Mohammadi. Ci sono altri luoghi, come il 2 A, che dicono essere un po’ più tranquilli. A volte non davano l’acqua».
Lei era considerata un’oppositrice politica?
«A volte mi accusavano di essere una spia, altre di aver partecipato alle proteste per Amini. Non ero né una spia, né un’oppositrice politica: ero una viaggiatrice. Il periodo storico è diverso: a settembre 2022 a Evin era un inferno. Le celle erano zeppe di donne appena arrestate per le proteste. Rimane comunque un posto terrificante».
Ti informavano dello stato della tua detenzione?
«Mai. Non sapevo che cosa mi sarebbe successo».
Qual è stato il momento peggiore per lei?
«Sono stata peggio le settimane successive all’arresto, rispetto che i primi giorni. All’inizio credevo che in poco tempo mi avrebbero liberata, che si sarebbero resi conto dell’errore. Poi è stata dura».
Conosce Cecilia Sala?
«L’ho conosciuta mentre presentava il suo libro e io il mio. Mi è sembrata una bravissima persona, le sono molto vicina. Vorrei poter parlare con la sua famiglia e abbracciarli. Vorrei dire a sua madre che non penso che le faranno del male e che hanno tutto il mio affetto. Vorrei aggiungere una cosa: a Evin si trovano ancora Cecile, suo marito Jacques e Oliver: tre ragazzi francesi arrestati nel 2022».