Corriere della Sera, 28 dicembre 2024
Cosa abbiamo in comune col signor Pilicot
Ci siamo quasi. Gran fermento per stabilire chi meriti il titolo di uomo o donna dell’anno. Per uscire dal labirinto della scelta, seguire un filo può essere d’aiuto. Ce n’è uno che lega tre storie recenti: le trenta coltellate piantate nella pelle di Martina Voce da Firenze, sopravvissuta per miracolo nella nordica Oslo dove lavorava in un negozio di alimentari; i maledetti anni dei soprusi patiti da Gisèle Pelicot a Mazan, nel Sud della Francia; le violenze ripetute e filmate che hanno ridotto a bambola di pezza una sedicenne di Seminara, Reggio Calabria.
È un filo spesso e spinato che porta fino a Giulia Cecchettin, di cui si è appena celebrato il processo contro l’ex fidanzato che l’ha uccisa. Porta alla battaglia che il padre di lei, Gino, ha cominciato mettendo al centro non la donna vittima ma l’uomo predatore, la sua prepotenza fisica, il non rendersi conto che non è il prescelto da nessun dio, il suo concetto di superiorità rispetto a una presunta inferiorità assegnata all’altro o ad altri sessi. Questo sarebbe il vero male da estirpare, il cambiamento profondo da perseguire, così razionalmente condivisibile (almeno tra persone di buon senso, non spingiamoci oltre), eppure così intimamente ridimensionato e, in fondo, negato. Quelli sono bestie, io che c’entro?
Il sospetto è che variamente c’entriamo tutti, noi con la desinenza in «o»: siamo nati diversi, queste faccende (di casa, di figli, di vita pratica e anche affettiva) toccano a lei ma io comunque do una mano. Nella vita comune, s’intende, che però è quasi sempre l’ambito da cui si scatenano gli inferni improvvisi che fanno bruciare di vergogna gli appartenenti più sensibili al genere in «o». Ma è un raccapriccio di solito breve e facile da esorcizzare: quello (o quelli) sono pazzi, casi limite, e poi le statistiche dicono che i numeri dei femminicidi sono più o meno sempre uguali di anno in anno, 96, 100, poca differenza. L’eccezione, per quanto orrenda, non mi riguarda, non ci riguarda. Sicuri?
Alcuni casi si somigliano e si ripetono con cadenza angosciante, uguali nel movente, differenti soltanto nei luoghi e modi dell’esecuzione. Vale per Giulia come per Martina. C’è un lui che non accetta la fine della storia decisa da lei, la tormenta per un po’ e poi, visto che la ex pensa davvero di potersi permettere di fare a meno della sua ineguagliabile grandiosità, si adopera per sopprimerla. Il fatto che spesso non siano irrefrenabili scatti di rabbia, ma propositi covati nel tempo, rende meno credibili i pentimenti a caldo. Sembrano prodotti più dal consiglio dell’avvocato che da un moto dell’animo. Come per Alessandro Impagnatiello, il barman che ha straziato con 37 coltellate la fidanzata Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, perché era d’ingombro a una sua relazione parallela: prima di prendere l’ergastolo, il massimo del suo rimorso è stato chiedere scusa.
La domanda è sempre la stessa: possibile che nessuno tra parenti, vicini, conoscenti, si sia accorto di niente, possibile che il «bersaglio» non abbia avvertito l’imminenza del pericolo, possibile che ogni rete di protezione (familiare, amicale, rionale, poliziesca, psicologica) non sia riuscita a impedire che l’evitabile si trasformasse, per trascuratezza e indifferenza, in inevitabile e mai più rimediabile?
Ci sono voluti anni prima che la ragazzina di Calabria fosse messa nelle condizioni di denunciare quel che ha dovuto subire senza possibilità di potersi sottrarre, senza che i suoi aguzzini mostrassero un segno di pietà o di ravvedimento, con una parte della famiglia che le consigliava di tacere perché quelli non sono bulli qualunque, sono figli delle ‘ndrine, meglio non farseli nemici. Sopporta, figlia o sorella, non aggiungere scandalo allo scandalo, sono purtroppo cose che capitano, fatti forza, vedrai che prima o poi la smetteranno. No, non avrebbero smesso, avrebbero completato il lavoro di distruzione di un’anima, per poi passare a un’altra, impuniti e impunibili.
Ci sono voluti anni prima che Gisèle Pelicot, ormai più che settantenne, scoprisse che il suo Dominique, il marito tanto amato e il padre tanto adorato dai suoi tre figli, per un decennio o forse più l’aveva drogata di sedativi, offrendola perché ne abusassero a un’ottantina di clienti (51 quelli identificati finora), pregati di lavarsi le mani e di non usare profumi prima di accanirsi su quella signora trasformata in «cosa». Lui intanto filmava, accumulando 20 mila ore di video insostenibili, con l’inanimata protagonista violata da una torma di persone perbene: pompieri, militari, guardie carcerarie, giornalisti, elettricisti, padri e mariti, dai 26 ai 74 anni. La mostruosità di maschi qualunque, come il vicino di casa, un collega rispettabile, un gentiluomo di cui mai diresti. La congiura del sesso forte che si abbatte, sicura di farla franca, sul sesso sfranto di una moglie trasformata «in un sacco della spazzatura», come dirà di sé stessa la protagonista incosciente di una storia a cui nemmeno lei, al principio, voleva credere.
Ma Gisèle ha scelto di non lasciarsi annientare, di non nascondersi, di non morire di vergogna. Ha preteso di essere presente al processo che si è tenuto ad Avignone. È comparsa con il suo volto dolce, l’aspetto curato, lo sguardo sereno di chi sa che non si farà mai più calpestare da nessun maschio alfa o beta o zeta. «Sono qui perché le donne dicano: se ce l’ha fatta la signora Pelicot, posso farcela anch’io. Non siamo noi a dover provare vergogna, ma loro, ognuno di loro». Il 19 dicembre sono stati tutti condannati, l’ex marito a vent’anni. Ma la conseguenza forse più importante è che proprio ad Avignone, in un centro per la tutela dei diritti, le chiamate si sono improvvisamente moltiplicate. Vengono da donne che hanno subito o subiscono violenza, quasi sempre domestica, e chiedono un aiuto per uscirne. Ma dovrebbero essere anche gli uomini, ad Avignone come in ogni altro luogo, a chiamare. Perché persino la perversione del «maschio dominante» si può curare. Richiederebbe, questa sindrome così tanto diffusa e per niente riconosciuta, di venire sottoposta, già ai primi sintomi, a un trattamento sanitario obbligatorio, il TSO riservato a chi non è più nelle condizioni di evitare il male a sé stesso e agli altri/altre. Provate per un attimo a pensare a una società a parti invertite, con un ipotetico genere femminile ai posti di comando: dominante, vessatorio, con punte di brutalità. Paradosso, ipotesi dell’irrealtà. Però è un esercizio istruttivo. In ogni caso, scegliere Gisèle Pelicot come persona dell’anno sarebbe un buon modo per inaugurare un 2025 sperabilmente diverso e migliore. E non soltanto per le donne.