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 2024  dicembre 28 Sabato calendario

Addio a Walter Pedullà

Quando ero all’università, dei corsi che teneva Walter Pedullà si raccontavano storie su storie. Le voci arrivavano fra i tavoli del bar di Villa Mirafiori, dove noi studenti di Filosofia passavamo il tempo in chiacchiere, lontanissimi dai letterati della Città Universitaria, dove Pedullà teneva lezione contagiando orde di studenti con una passione straripante. In molti, allora, superammo lo snobismo filosofico di cui ci beavamo inutilmente e facemmo lo sforzo di attraversare le poche vie attorno a piazza Bologna per toccare con mano. Non si poteva evitare l’esperienza, in effetti, visto tutto quel che ci era stato raccontato. L’aneddoto più famoso risaliva indietro negli anni. Si diceva che sull’onda della contestazione un laureando gli avesse detto: «Professore presenterò la tesi in bianco, priva di testo». E lui, senza batter ciglio, divertito, gli aveva risposto: «Benissimo. Non dimentichi però le note». Per chi si era abituato alla seriosità di studi anche troppo intellettuali, Pedullà era un portento. E le sue lezioni un’esperienza travolgente. Conosceva la letteratura italiana del Novecento come nessuno e si divertiva a passare “di palo in frasca”, come diceva lui stesso, giocando sulle parole, cercando sempre l’aforisma, ribaltando significati e significanti, ridendo di sé e offrendosi completamente, perché quello era il suo desiderio: che gli studenti ascoltassero, ovvio, ma poi dicessero qualcosa di diverso da quel che avevano ascoltato, qualcosa che fosse capace di sorprenderlo.Una decina di anni dopo quei momenti indimenticabili e tuttavia saltuari, casuali, di pura curiosità intellettuale, estranea al corso di studi, come capita solo nei momenti migliori dell’Università, lo conobbi. Grazie a lui e a suo figlio Gabriele, un mio racconto era stato pubblicato dalla rivista che dirigeva, Il Caffè illustrato. Era il mio esordio nella narrativa e incontrarlo, adesso, mi faceva tremare le gambe. Non c’era soltanto il professore mitico, infatti. C’era il vero e proprio paradigma del critico militante, uno che era diventato socialista a quindici anni e che sull’Avanti! aveva scritto di qualsiasi autore la storia della letteratura italiana dovesse ricordarsi. C’era l’uomo che aveva diffuso cultura in ogni modo, anche attraverso il teatro e la televisione, con trovate geniali e incarichi di enorme peso. C’era un mostro sacro, insomma, uno dei più grandi del Novecento, uno che si portava appresso l’infinito libro che di continuo viene scritto e riscritto, ampliato, chiuso, riaperto senza mai fermarsi. Cosa ci facevo io lì? Lo capii subito. Ci facevo proprio quello che i suoi studenti avevano sempre raccontato. In lui, infatti, c’era solo buonumore, interesse e una disponibilità a parlare di letteratura che poche volte ho ritrovato così fresca, brillante, piena di vita. Citava autori, faceva battute, domandava. Si appassionava alle storie e gliene venivano in mente senza sosta. Si divertiva e investigava. E quando uscì il mio primo romanzo volle spiegarmi quali fossero gli autori che ci sentiva dentro, volle sostenere il libro, addirittura presentarlo al Premio Strega, e ogni volta che ci trovammo insieme mi sembrava di entrare in una dimensione di completa simbiosi fra vita e letteratura, proprio come era sempre stato nei miei sogni.Ma per spiegare tutta quella esplosione di passioni, bisognava varcare una soglia. Accadeva quando la sua voce si faceva più malinconica e riflessiva e iniziava a parlare della sua famiglia, dei suoi genitori, e soprattutto di un fratello, Gesumino. Di quasi vent’anni più grande di lui, Gesumino era morto che lui era un ragazzino. Lo aveva visto l’ultima volta a dodici anni e a quattordici aveva saputo che il tifo, contratto mentre lottava con i partigiani di Alatri, lo aveva finito sulla via del ritorno a casa, a Siderno. Studioso onnivoro, appassionato e generoso comunista, pronto a dare tutto per far crescere intellettualmente i più bisognosi, Gesumino era debole di fisico ma forte di quel che serve davvero, talento e tenacia. Avrebbe avuto la possibilità di carriere universitarie a Roma, ma era tornato per aiutare la famiglia, insegnando poco lontano da Siderno, a Locri, e leggendo e studiando senza sosta. Uno che quando era venuto in contatto con gli indiani fra le truppe di Montgomery aveva trovato il modo di comunicare in sanscrito, perché c’è sempre un modo per superarsi, e quel modo sta in ciò che abbiamo studiato, anche di notte, a lume di candela, come accadeva a casa Pedullà. Una casa che nei racconti diventava il cuore capace di spiegare tutto un mondo. Sarti, dediti a un lavoro di quattordici ore al giorno, il padre e la madre di Gesumino, Walter e altri cinque fratelli, avevano sempre creduto che se c’è un modo per combattere il fatalismo meridionale, esso sta nello studio, nella conoscenza e nel lavoro culturale. Perché «l’ultimo dei laureati vive meglio del primo degli operai, dei contadini e degli artigiani». Una convinzione trasmessa non per mezzo di ordini morali, ma attraverso un’"affabulazione incantatrice” tipica dei tempi in cui tutto era cultura orale e più che mai passione. Erano racconti malinconici e dolci, questi. Ma poi si tornava subito agli scherzi, alle battute, al comico. Perché «l’umorismo fa buon sangue, non meno del riso». E il riso, come diceva Benjamin «è ottimo avvio per la dialettica». «Vero» diceva allora Walter Pedullà, gioviale, ridanciano, pronto agli effetti di quel che stava per dire. «Ottimo avvio per la dialettica, sì. Però io lo uso anche per consolarmi alla fine della dialettica».